Il 10 dicembre 2025 resterà una data simbolica per l’Italia, perché la cucina italiana entra ufficialmente nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Un riconoscimento che arriva come una conferma attesa da anni, ma che, più che chiudere un percorso, apre una fase nuova. L’Unesco certifica un valore esistente, certo, ma invita anche a misurarsi con ciò che questo valore implica: consapevolezza, responsabilità, capacità di raccontare una cultura gastronomica che continua a evolvere. È da qui che deve partire la riflessione del comparto, per evitare che il titolo diventi un gesto celebrativo senza ricadute reali.
Un riconoscimento che obbliga a guardare avanti
Le prime reazioni istituzionali hanno dato voce a un sentimento diffuso: il riconoscimento viene percepito come una conquista collettiva (concetto rimarcato anche da Coldiretti e Campagna Amica), capace di riunire storie, territori e saperi. Il ministro Francesco Lollobrigida ha evocato l’idea di una cucina che «è il racconto di tutti noi», un patrimonio che accompagna generazioni e identità locali. Una narrazione che restituisce bene il valore simbolico di questo passaggio, ma che apre subito un fronte più concreto: trasformare questo racconto in un progetto, capire quali strumenti servano per far vivere un patrimonio che non può rimanere confinato alla memoria o al folklore.

Francesco Lollobrigida e Lino Stoppani
Su una linea complementare Lino Stoppani, presidente di Fipe-Confcommercio, che ha definito la cucina italiana «un condensato di valori che parla di qualità, biodiversità e stagionalità». È un modo per ricordare che ciò che l’Unesco riconosce non è un marchio da proteggere, ma un sistema culturale complesso che necessita di strategie, formazione e continuità. Un patrimonio, per quanto prestigioso, non si preserva da sé: richiede politiche e visione.
La cucina italiana oltre la cartolina
Nelle cucine, l’atmosfera è diversa. Il riconoscimento non è vissuto come un traguardo, ma come lo spartiacque che costringe a guardare in faccia una contraddizione che dura da anni: la distanza tra ciò che la cucina italiana è oggi e ciò che il mondo continua a vedere. L’immaginario internazionale resta inchiodato a un repertorio che non rappresenta più la realtà contemporanea, fatta di nuove tecniche, nuove sensibilità, nuovi linguaggi. È un nodo che Viviana Varese sintetizza chiaramente quando auspica che si inizi a parlare «della cucina italiana di oggi, nuova». Il punto non è abbandonare la storia, ma smettere di mostrarne soltanto una versione sterilizzata. Un patrimonio vive nel suo tempo, non nella nostalgia; e se il racconto non segue l’evoluzione della pratica, ciò che dovrebbe essere identità rischia di diventare una caricatura.

Viviana Varese e Igles Corelli
Su un piano più strutturale si muove la riflessione di Igles Corelli, che da anni insiste sulla mancanza di una codificazione condivisa. Secondo lui, l’Italia ha continuato ad affidarsi al peso delle tradizioni senza trasformarle in un linguaggio comune. «Adesso bisogna creare veramente questa cucina italiana» dice senza giri di parole. Il riconoscimento internazionale evidenzia proprio ciò che è rimasto in sospeso: un sistema gastronomico straordinario nelle sue parti, ma privo di un impianto culturale capace di rappresentarlo nella sua totalità.

Marino D’Antonio e Umberto Bombana
Questa fragilità diventa ancora più visibile guardando a chi porta quotidianamente la cucina italiana all’estero, dove non c’è il contesto culturale a sorreggerla: conta solo il risultato. A Macao e Hong Kong, Marino D’Antonio e Umberto Bombana accolgono con entusiasmo un traguardo «atteso da anni», confermando quanto la cucina italiana resti amata nel mondo. Ma aggiungono un passaggio che riporta tutto alla sostanza: «Adesso abbiamo il dovere di fare tesoro di questo riconoscimento». È un invito a non scambiare il prestigio per protezione. La credibilità, fuori dall’Italia, si costruisce ogni giorno.
La pizza davanti alla responsabilità del suo successo
Un discorso analogo emerge dal mondo della pizza, che più di ogni altro prodotto incarna l’immaginario globale legato all’Italia. Una responsabilità che non può essere sottovalutata. Franco Pepe lo ricorda richiamando il valore culturale che accompagna la nostra cucina: «La cucina italiana custodisce la dieta mediterranea». È un modo per dire che il riconoscimento non riguarda soltanto un patrimonio gastronomico, ma un modello alimentare che ha ricadute sociali ed educative.

Franco Pepe e Francesco Martucci
A questa visione si affianca quella di Francesco Martucci, che considera il verdetto dell’Unesco una conferma naturale della storia italiana. «La cucina italiana dovrebbe essere patrimonio a prescindere», osserva, ricordando però che proprio la forza di un simbolo può diventare un ostacolo se non viene coltivata. La pizza è ormai un’icona planetaria: la sua popolarità è un’enorme risorsa, ma anche una tentazione a considerare acquisito ciò che richiede invece cura e rinnovamento continuo.
Pasticceria: tra eredità e nuove ambizioni
Nella pasticceria, il riconoscimento viene interpretato come una chiamata alla responsabilità formativa. Sal De Riso insiste sul valore delle materie prime e sulla necessità di trasmettere conoscenza. «Abbiamo in mano un patrimonio che dobbiamo preservare e tramandare». La continuità del patrimonio passa infatti dalla capacità di raccontarlo e insegnarlo, non soltanto dalla sua esecuzione tecnica.

Sal De Riso e Matteo Cutolo
Uno sguardo più proiettato verso l’esterno arriva invece da Matteo Cutolo, che vede nel riconoscimento una leva per dare alla pasticceria italiana una presenza più strutturata sulla scena internazionale. «Il prossimo passo sarà far riconoscere il panettone come prodotto d’eccellenza globale». È un obiettivo che riflette l’ambizione di un comparto che non vuole limitarsi alla tradizione, ma costruire una nuova centralità culturale.
Sala e vino: ciò che completa (e orienta) l’esperienza italiana
A completare il quadro c’è l’esperienza della sala, spesso trascurata ma decisiva per la percezione complessiva della cucina italiana, e del vino. Rudy Travagli sottolinea il ruolo che gastronomia e accoglienza giocano nel turismo culturale: «Il turista viene in Italia anche per il cibo». Una constatazione semplice, che però suggerisce quanto la cucina possa essere una leva strategica per costruire narrazioni territoriali e modelli di sviluppo.

Rudy Travagli ed Eros Teboni
In questa prospettiva si inserisce anche Eros Teboni, miglior sommelier del mondo 2018, che interpreta il riconoscimento come un impulso ulteriore per la ristorazione italiana all’estero. «Ci sarà un ulteriore push per la nostra cucina nel mondo». È un richiamo a includere il vino nel raccontare la cucina italiana: non come accessorio, ma come parte strutturale del suo patrimonio narrativo.

Giacomo Ponti, presidente di Federvini
Una prospettiva che trova un ulteriore riscontro nelle parole di Giacomo Ponti, presidente di Federvini, che ricorda come il riconoscimento abbracci tutto ciò che compone la cultura della tavola italiana: «Questo riconoscimento non premia solo i piatti, ma l’intera cultura della tavola, dove vini, distillati, amari, liquori e aceti definiscono l’identità gastronomica del Paese». Un richiamo che completa la lettura di Teboni: il vino non è un accessorio, ma una parte essenziale di ciò che l’Unesco oggi ci riconosce.
L’Unesco come punto di partenza
Insomma, il riconoscimento dell’Unesco restituisce un’immagine luminosa dell’Italia gastronomica, ma allo stesso tempo ne rivela le sfide. Un patrimonio vive solo se trova nuovi modi per esprimersi; non basta celebrarlo, bisogna praticarlo, insegnarlo, aggiornarlo. La cucina italiana entra nel patrimonio dell’umanità mentre attraversa una fase di trasformazione profonda. Il futuro di questo riconoscimento non dipenderà da chi l’ha attribuito, ma da come il Paese saprà farlo vivere. È questo il punto che unisce tutte le voci del settore: il titolo non chiude nulla. Impegna.