Il rischio, oggi, è che il gran parlarne - spesso a vuoto - abbia già stancato tutti. E sarebbe un paradosso, perché il riconoscimento Unesco alla cucina italiana ha avuto un effetto tutt’altro che marginale: ha fatto uscire tutti allo scoperto. Applausi, distinguo, sospetti, rivendicazioni identitarie e una quota costante di fastidio verso qualsiasi cosa provi davvero a funzionare. Nulla di nuovo sotto il sole, ma sufficiente per capire dove siamo.
Unesco e cucina italiana: oltre simboli, sovranismi e tutela dei prodotti
C’è chi sminuisce il valore del riconoscimento, riducendolo a un’operazione simbolica, a marketing istituzionale o, peggio, a folklore da cartolina. È la linea del “non serve a niente”, spesso sostenuta da chi confonde l’Unesco con una guida gastronomica o con un bollino di qualità commerciale. In realtà l’Unesco non certifica il “piatto buono”, ma riconosce un sistema culturale vivo, fatto di pratiche, saperi, trasmissione generazionale e rapporto con il territorio. Liquidarlo come fuffa significa non aver capito la posta in gioco. O far finta di non capirla. Un po’ come il critico del Times che giudica una truffa la nostra cucina (poveretto…)!

Il riconoscimento Unesco premia prima di tutto la convivialità
Poi c’è il fronte sovranista, che legge il riconoscimento come una vittoria identitaria, quasi una blindatura etnica della cucina italiana. Qui il rischio è alto: trasformare una storia di scambi, contaminazioni e adattamenti continui in una narrazione rigida, museale, difensiva. La cucina italiana non è diventata grande perché “pura”, ma perché inclusiva. Dai dolci di miele, ricotta e agrumi di matrice araba, fino al pomodoro arrivato dal Sud America e diventato simbolo nazionale: se la cucina fosse stata sovranista nei secoli, oggi mangeremmo molto peggio. E probabilmente senza rendercene conto. Saremmo un po’ come gli inglesi col oro porridge o il fish and chips: volete mettere con la frittura di pesce italiana o la tempura giapponese?

Il pomodoro, uno dei simboli della cucina italiana, arriva dal Sud America
C’è infine la posizione di chi, come Coldiretti, vede nell’Unesco soprattutto uno strumento di tutela dei prodotti italiani. Una lettura comprensibile, ma incompleta. Il riconoscimento non protegge un insieme di Dop, non difende una filiera in senso stretto, non è un’arma doganale. Se viene usato solo così, perde profondità. Il valore vero non è il prodotto in sé, ma la relazione: tra prodotto, territorio, persone, cucina domestica e ristorazione quotidiana. Dimenticarlo significa ridurre una cultura complessa a un catalogo di ingredienti.
Il punto cieco del dibattito: la ristorazione familiare
In mezzo a questo rumore, c’è un grande assente: la ristorazione familiare legata al territorio. Trattorie, osterie, ristoranti di paese. Cucine che non finiscono sulle guide patinate, ma che tengono in piedi l’identità gastronomica reale del Paese e rappresentano la parte largamente maggioritaria del comparto, in termini economici e occupazionali. Eppure, il dibattito continua a concentrarsi sugli stellati e sul fine dining, come se il resto fosse contorno.

Trattorie, osterie, ristoranti di paese sono le grandi assenti dal dibattito sul riconoscimento Unesco
È invece qui che il riconoscimento Unesco può diventare uno strumento potente, se usato con intelligenza. Non per alzare i prezzi o appendere targhette alle porte, ma per:
- rafforzare il racconto di una cucina quotidiana, riconoscibile e autentica;
- valorizzare il passaggio di competenze tra generazioni, oggi a rischio più per mancanza di status che di talento;
- dare legittimità culturale a modelli di ristorazione basati sulla continuità, non sull’eccezione;
- intercettare un turismo consapevole, interessato a mangiare bene e a capire dove si trova e perché quel piatto esiste proprio lì.
Il futuro non è trasformare ogni trattoria in un museo, ma riconoscere che la cucina italiana vive perché cambia senza perdere memoria. L’Unesco, se usato bene, può essere una leva politica, culturale ed economica. Se usato male, diventa un adesivo da attaccare sul vetro.
In ballo c’è il futuro di un sistema e di una filiera agroalimentare
Come Italia a Tavola ha più volte ricordato, in gioco ci sono anche valori economici importanti. Ricordare che molte cucine regionali sono indissolubilmente legate a pratiche e prodotti del territorio è un modo concreto per legare l’intera filiera agricola al valore della tavola e della convivialità che contraddistingue lo stile di vita italiano. E tutelare quindi una biodiversità fra le più complesse al mondo. Ed è qui che serve chiarezza. Proporre in menu una Ceviche di cernia può essere un atto di alta cucina, se fatto bene. Ma non si può pensare che la tradizione peruviana diventi improvvisamente anche italiana, né tirare in ballo la tutela Unesco per legittimarla. Lo stesso vale per le molte kombucha che oggi compaiono in carta: valide alternative al vino, per chi le apprezza, ma senza appartenenza alla tradizione italiana.

Il riconoscimento Unesco può aiutare a combattere l'italian sounding
Al contrario, il riconoscimento Unesco può essere uno strumento utile per combattere l’italian sounding, a patto di non semplificare. Molte produzioni realizzate fuori dall’Italia fanno riferimento a proprietà italiane, spesso delocalizzate per necessità di mercato. Basti pensare a cosa rischiano di essere costretti a fare i produttori italiani di pasta di fronte a nuovi dazi internazionali. Difendere l’identità non significa negare la complessità economica.
Cucina italiana Unesco: cose da non confondere (una volta per tutte)
Il riconoscimento non certifica come si fa una lasagna, né quanta noce moscata va nel ragù. L’Unesco tutela pratiche culturali, non disciplinari di cucina. Le ricette cambiano, il senso resta. Non è un marchio di qualità commerciale e non protegge singoli prodotti. Non serve a difendere un formaggio o un salume, ma il sistema di relazioni tra territorio, cucina domestica e ristorazione. Non assegna stelle, forchette o punteggi. Non dice dove si mangia meglio, ma riconosce una cultura del cibo che vive nel tempo e nelle comunità.
La cucina italiana non è “pura” né immutabile. È cresciuta per inclusione, scambi e adattamenti. Difenderla non significa chiuderla, ma evitare che perda significato. Inclusione, però, non vuol dire anarchia. Una ceviche può essere alta cucina, una kombucha una scelta legittima, ma non diventano tradizione italiana per decreto. Gli spaghetti al ketchup non sono contaminazione: sono smarrimento. Il cuore del riconoscimento non sono i ristoranti stellati, ma la cucina quotidiana: trattorie, osterie, ristorazione familiare, convivialità. Dove la cucina si pratica, non solo si racconta. Può aiutare a fare chiarezza culturale, ma non risolve da sola problemi economici complessi come delocalizzazioni, dazi e mercati globali. Identità e mercato non coincidono sempre. Serve a orientare, non a comandare. Aiuta a capire cosa stiamo chiamando “cucina italiana”, dove finisce l’interpretazione e dove inizia lo snaturamento.
Cucina italiana Unesco: cose da non confondere (una volta per tutte)
Unesco e ricette
Il riconoscimento non certifica come si fa una lasagna, né quanta noce moscata va nel ragù.
L’Unesco tutela pratiche culturali, non disciplinari di cucina. Le ricette cambiano, il senso resta.
Unesco e DOP, IGP e bollini
Non è un marchio di qualità commerciale e non protegge singoli prodotti. Non serve a difendere un formaggio o un salume, ma il sistema di relazioni tra territorio, cucina domestica e ristorazione.
Unesco e guida gastronomica
Non assegna stelle, forchette o punteggi. Non dice dove si mangia meglio, ma riconosce una cultura del cibo che vive nel tempo e nelle comunità.
Unesco e sovranismo culinario
La cucina italiana non è “pura” né immutabile. È cresciuta per inclusione, scambi e adattamenti. Difenderla non significa chiuderla, ma evitare che perda significato.
Unesco e tutto va bene
Inclusione non vuol dire anarchia. Una ceviche può essere alta cucina, una kombucha una scelta legittima, ma non diventano tradizione italiana per decreto. Gli spaghetti al ketchup non sono contaminazione: sono smarrimento.
Unesco e alta cucina (solo)
Il cuore del riconoscimento non sono i ristoranti stellati, ma la cucina quotidiana: trattorie, osterie, ristorazione familiare, convivialità. Dove la cucina si pratica, non solo si racconta.
Unesco e arma contro l’italian sounding (da sola)
Può aiutare a fare chiarezza culturale, ma non risolve da sola problemi economici complessi come delocalizzazioni, dazi e mercati globali. Identità e mercato non coincidono sempre.
Unesco e bussola culturale
Serve a orientare, non a comandare. Aiuta a capire cosa stiamo chiamando “cucina italiana”, dove finisce l’interpretazione e dove inizia lo snaturamento.
L’inclusione in cucina è un valore, gli spaghetti al ketchup no
L’Unesco può essere utile anche per sostenere l’espansione della cucina italiana nel mondo, purché si trovino modalità corrette per indicare un valore culturale generale. Se qualcuno usa la panna in un sugo, non è la fine del mondo. Se si mantiene uno stile di convivialità e riconoscibilità, la cucina italiana resta tale. Ma accettare tutto indistintamente significa perdere il senso. Gli spaghetti con il ketchup non sono inclusione: sono snaturamento.

Gli spaghetti con il ketchup non sono inclusione: sono snaturamento
Detto che l’Unesco non deve regolamentare né controllare le ricette, una buona pratica potrebbe essere aiutare consumatori e turisti a riconoscere i ristoranti dove, con certezza, si propone cucina italian, compresa la modalità di accoglienza, che ne è uno dei pilastri. Non in contrapposizione con il fine dining che lavora su format internazionali, ma in modo trasparente. Se entro in un locale e ordino le lasagne, è legittimo aspettarsi una delle tante versioni regionali, più o meno contemporanee, ma riconoscibili: strati di pasta, ragù, struttura, memoria. Se trovo solo una versione “distillata” - eccellente, magari - non è in discussione la qualità, ma l’appartenenza culturale. Forse quel locale non sta proponendo cucina italiana, almeno nel senso che oggi intendiamo tutelare.

Cosa significa davvero la tutela Unesco
La tutela dell’Unesco:
- Non è una regola.
- Non è un disciplinare.
- È una questione di chiarezza culturale.