La Movida era un problema già pre-Covid. Per gestirla servono meno locali e più spazi

Con l'emergenza pandemia gli assembramenti fuori dai locali sono finiti nel mirino della critica. Ma la questione è ormai annosa e non riguarda solo questo ultimo anno . Diminuire le licenze e trovare spazi in città riqualificate è necessario per disinnescare una bomba che crea disagi, lamentele, incidenti e sì, anche contagi

18 marzo 2021 | 08:30
di Federico Biffignandi
Dallo scorso maggio quando uscimmo dal primo lockdown, il più duro e il più stringente, il tema della movida è finito nel mirino della critica. Aperitivi e serate, soprattutto estive, hanno fatto drizzare le antenne all’opinione pubblica e alla politica che ha iniziato a puntare il dito contro i giovani e il loro modo di divertirsi come se fosse il principale problema del Covid. Non che non lo fosse e non lo sia tuttora perché è innegabile che gli assembramenti visti in molte piazze italiane non sono una bella immagine, ma il fenomeno merita un approfondimento più ampio e ragionato.



La movida esisteva prima del Covid
Il punto di partenza deve essere ben chiaro: il problema della movida era già difficilmente gestibile anche prima della pandemia; i problemi che sorgevano all’epoca erano diversi, ma non certo meno importanti. Che poi, cosa significa movida? L’origine del termine trova le sue radici in un movimento artistico culturale spagnolo nato subito dopo la dittatura franchista, poi è arrivato anche in Italia per definire le serate di divertimento tra musica, balli, cibo e bevute fino ad assumere oggi un termine più dispregiativo che identifica un incontrollato divertimento fatto di urla, schiamazzi, incidenti, episodi spiacevoli.

La sentenza di Torino
Che il “divertimento incontrollato” fosse un problema anche prima del Covid ce lo ricorda una sentenza del giudice civile di Torino, Rosanna Musa che ha condannato Palazzo Civico a risarcire 29 cittadini che abitano nel quartiere San Salvario. La giunta infatti, sia quella targata Appendino sia la precedente di Fassino, è colpevole di non aver adottato “le misure necessarie a contenere entro i limiti di legge i rumori notturni provocati dalla movida” e di non aver arginato “il disagio causato dal flusso massiccio e costante di persone che stazionano e intralciano la libera circolazione”. In sostanza, è stato “violato il diritto alla tranquillità dei cittadini”. Il giudice ha identificato l’origine del rumore “nelle urla, negli schiamazzi e nel parlato ad alta voce che scaturisce dal flusso massiccio e costante di persone che transitano, stazionano e intralciano le vie e il largo Saluzzo e di avventori dei locali commerciali in genere”.

Ora dal fondo cassa del bilancio locale dovrà uscire poco meno di un milione e duecentomila euro, pari a 42mila euro a residente. Seimila per ciascun anno di turbamento subito, 500 euro al mese: a partire dal 2013 e fino al marzo del 2020, mese in cui è entrato in vigore il lockdown a causa della pandemia da Covid.

Troppi locali, poco spazio, scarsa qualità
Dunque, il disturbo della quiete pubblica che deriva da uno stazionamento fuori dai locali notturni costante, duraturo, rumoroso. Ma perché i ragazzi non stanno all’interno dei locali dove adeguate architetture insonorizzerebbero i loro rumori e manterrebbero i rifiuti arginati al perimetro del locale stesso? Semplice, perché i locali sono troppi e per starci tutti devono essere molto piccoli quindi all’interno non ci si sta, si entra forse per ordinare, forse per pagare ma subito dopo si esce per strada - bloccando il normale flusso del traffico - o sui marciapiedi lasciando a chi passa il mattino l’obbligo di fare lo slalom tra bicchieri, cibo, carte e spazzatura varia.

Insomma, il problema torna quello di un sovraffollamento dell’offerta così come succede nella ristorazione. Il boom del fantomatico “food” ha fatto schizzare alle stelle l’apertura di ristoranti, trattorie, bar, wine bar, enoteche, take away, sushi, kebab e chi più ne ha, più ne metta. Il risultato? Offerta enogastronomica sempre più scadente, guerra al ribasso sui prezzi tra locali e maxi assembramenti - spesso in centro città - che Covid o non Covid danno fastidio a molti.

Ridurre i locali o trovare altri spazi
Quale sarebbe la soluzione? O ridurre il numero di locali, oppure predisporre un piano urbanistico che distribuisca meglio lo stesso numero di locali in modo che, invece che dover monitorare una mandria incontrollabile di giovani alticci, si possano formare tanti gruppi più ridimensionati i quali, magari, possono anche stare all’interno del locale più a lungo e più frequentemente.

Il Recovery plan del resto parla chiaramente di riqualificazione urbana tra le sue priorità e si spera che non sia solo un bello slogan, ma un reale obiettivo dell’Italia che uscirà dalla pandemia (si spera) con un nuovo volto. Le nostre città hanno bisogno di svecchiarsi, di creare spazi, di inventarseli dove non sembrano possibili, di valorizzare angoli abbandonati, di recuperare molteplici edifici che cascano a pezzi e potrebbero invece diventare un sano luogo di aggregazione. In più - purtroppo - ci saranno molti spazi vuoti, in cerca di acquirenti o affittuari appartenenti a quegli imprenditori che non sono riusciti a resistere alla crisi del Covid. L’alternativa? Una città morta, deserta, abbandonata, privata della propria cultura e delle proprie buone abitudini. Già ci siamo vicini a causa dello smart working virtuoso in qualche caso, abusato in altre situazioni (da leggersi: pubblica amministrazione).

Ogni amministrazione comunale - dopo aver fatto mea culpa per non aver fatto quasi niente negli anni scorsi - deve guardarsi allo specchio, confrontarsi con le istituzioni nazionali e ripartire con l’intento di disinnescare una bomba pronta a riesplodere in qualunque momento, quella della movida. Non pensiamo che al prossimo sblocco torneremo tutti bravi soldatini a un metro (possibilmente due…) di distanza, il problema assembramenti così come stanno le cose ritornerà. A Milano i Navigli sono spesso l’emblema di una situazione incontrollabile.

La questione Navigli
La fotografia della situazione la fa Giovanni Nizzola, presidente dell’Associazione Naviglio Grande che riunisce dal 1982 alcune delle attività storiche che sorgono sulle sponde dei Navigli. Un’associazione che con la movida ha poco a che fare visto che si occupa soprattutto di arte e cultura, ma che con la movida e i locali deve conviverci.



«Non si può dire che sia una convivenza complicata - spiega Nizzola - perché quando le nostre attività chiudono, le loro aprono. Certo ci sono periodi, soprattutto d’estate, in cui si fa fatica perché bisogna sgomitare per uscire dal negozio visto l’afflusso di gente. Dispiace che in alcune occasioni la situazione degeneri con episodi che non hanno a che fare con il divertimento perché la zona è parte integrante della storia di Milano, della sua cultura, della sua società. E a questo proposito non è facile nemmeno per i residenti che dal 2015, anno dal quale è iniziata la riqualificazione dell’area attorno alla Darsena, lamentano l’eccessivo passaggio di persone che vivono i locali. Noi cerchiamo di conviverci al meglio, di certo con i nostri 15 eventi annuali li aiutiamo “involontariamente” perché chi viene a visitare ad esempio i nostri mercati poi si ferma a bere o mangiare in qualche locale che sorge sulle sponde del Naviglio. Noi invece non abbiamo alcun beneficio da loro, abbiamo target di clienti troppo diversi, anzi l’eccessivo afflusso di gioventù limita qualche volta i nostri spazi».

La situazione di Roma
Anche a Roma la situazione in alcune occasioni degenera e l’intervento delle Forze dell’Ordine non è sempre così tempestivo. Un tema bollente quello su “chi deve controllare dove” con i gestori dei locali che chiedono più aiuti per gestire gli spazi esterni ai locali. «Io penso che non si possa considerare il fatto di diminuire il numero di locali pubblici - spiega il presidente di Fipe Roma, Sergio Paolantoni - perché il loro ruolo è proprio quello di fare da catalizzatore per le aggregazioni della gioventù, fenomeno ben diverso dalla movida. Certo è che si potrebbe fare meglio, ad esempio aumentando i controlli nei luoghi caldi del divertimento, impedendo ad attività non predisposte ad essere locale pubblico di fungere da tale e migliorando l’offerta delle singole attività. Poi, aumentando gli spazi, aumentando i luoghi di aggregazione portando i ragazzi in più “centri” rispetto ad oggi, migliorare insomma la gestione del territorio. Ecco perché la riqualificazione urbana prevista dal Recovery diventerà centrale; penso anche che il Covid ci abbia comunque insegnato molto, i ragazzi stanno imparando sempre di più a rispettare le regole e a limitare il più possibile gli affollamenti: sarà così ancora per un po’ di tempo».



La movida, un problema sociale
Intanto però qualcosa bisogna fare perchè la movida o il divertimento va inserito in un quadro sociale da ridefinire. Marco Marzano, sociologo (ora in libreria con il suo ultimo lavoro "La Casta dei Casti", edito da Bompiani) prova ad immaginare la città post pandemia: «Faccio il visionario: la cosa che dovremmo riuscire a fare come società è quella di integrare la passione dei giovani per il divertimento con altre attività, per esempio culturali, ricreative, con dei contenuti. Dovremmo essere capaci di costruire dei quartieri giovani che non abbiano solo il bar, ma che abbiano il cinema, le mostre, il teatro, un’offerta culturale più ampia che non entri in conflitto col bar, anzi che magari si integri».



«Ritengo tristissima - ha concluso - l’idea per cui lo scontro generazionale oggi si giochi sulla voglia di dormire dei vecchi e quella di fare chiasso dei giovani: bisogna uscire da questa situazione e creare un'offerta articolata e adattata alle esigenze dei ragazzi. Sarebbe bello insomma creare un luogo tipo il Quartiere Latino di Parigi. L'idea di isolare i ragazzi in ghetti decentralizzati del resto non mi piace, sarebbe pericolosa e incontrollata»

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Alberto Lupini


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