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Per avvicinare i giovani alla sala servono percorsi che vadano oltre i banchi di scuola

In un settore che fatica ad attirare nuove leve, Domenico Sardella, restaurant manager, ricorda che la curiosità nasce quando i ragazzi vedono da vicino chi lavora davvero: brigate, produttori, imprenditori. Nonostante riconosca il valore dell’alberghiero, sostiene che la passione si accende solo se la formazione incontra anche la realtà quotidiana del mestiere

di Nicholas Reitano
Redattore
28 novembre 2025 | 05:00
Per avvicinare i giovani alla sala servono percorsi che vadano oltre i banchi di scuola
Per avvicinare i giovani alla sala servono percorsi che vadano oltre i banchi di scuola

Per avvicinare i giovani alla sala servono percorsi che vadano oltre i banchi di scuola

In un settore che fatica ad attirare nuove leve, Domenico Sardella, restaurant manager, ricorda che la curiosità nasce quando i ragazzi vedono da vicino chi lavora davvero: brigate, produttori, imprenditori. Nonostante riconosca il valore dell’alberghiero, sostiene che la passione si accende solo se la formazione incontra anche la realtà quotidiana del mestiere

di Nicholas Reitano
Redattore
28 novembre 2025 | 05:00
 

Avvicinare le nuove generazioni alla sala non è impossibile: è solo più complesso di quanto si voglia ammettere. Lo sa bene Domenico Sardella, restaurant manager classe ’88 della Cantina Piemontese di Milano e inserito da Wine List Italia tra i 100 migliori sommelier italiani, che di ragazzi in cerca di direzione ne incontra molti. Per lui la distanza non nasce dalla fatica del mestiere, ma dal fatto che troppi arrivano senza aver mai respirato davvero l’ambiente in cui vorrebbero lavorare. «Bisognerebbe portarli più spesso sul campo, nelle aziende, dai produttori. È lì che scatta la curiosità». La scuola resta - ovviamente - un passaggio obbligatorio, ma da sola non bastaserve vedere da vicino il ritmo della sala, la complessità del lavoro e quel contatto quotidiano con le persone che nessuna lezione può restituire.

Un percorso costruito passo dopo passo

Il suo ragionamento nasce anche dalla sua storia personale, un percorso che si è formato giorno dopo giorno, con pazienza e ostinazione, iniziato dai banchi dell’Alberghiero di Bari e dalle prime esperienze nella banchettistica e negli hotel della sua città, mentre ancora studiava. «Ho iniziato a 16 anni perché volevo mettermi alla prova. Ogni sera imparavo qualcosa di nuovo e capivo che questo mondo poteva diventare il mio futuro». L’arrivo a Milano, una volta compiuti i vent’anni, è stato il passo necessario per trasformare quella scintilla in un vero percorso: sono gli anni in cui comincia a curiosare tra le cantine, conoscere i produttori e assaggiare vini che non aveva mai visto prima.

Con il passare del tempo, però, la voglia di confronto con realtà diverse diventa sempre più forte. Da qui la scelta di trasferirsi in Australia, con un working holiday visa e l’idea di restare abbastanza a lungo da impadronirsi dell’inglese e crescere professionalmente. Finisce a Brisbane, dove lavora come sommelier e restaurant manager in un ristorante italiano. «Sono rimasto quasi quattro anni. Avrei potuto rimanere ancora, ma la mancanza dell’Italia si faceva sentire. Mi mancavano i nostri sapori, il modo in cui viviamo il vino e il cibo» racconta. Tornare non è stato un atterraggio morbido: un anno di assestamento, diversi tentativi, poi l’arrivo alla Cantina Piemontese, dove oggi lavora da oltre sei anni.

Per avvicinare i giovani alla sala servono percorsi che vadano oltre i banchi di scuola

Particolare della sala della Cantina Piemontese di Milano

L’esperienza australiana, oltre a segnare un punto di svolta personale, gli ha permesso di osservare da vicino anche un modello organizzativo molto diverso dal nostro, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento dei giovani. «Lì anche una semplice caffetteria è strutturata con ruoli chiari: camerieri, supervisor, direttori. E questo dà ai ragazzi la possibilità di crescere passo dopo passo» spiega.

Giovani, scuole alberghiere e la questione delle motivazioni

Quell’esperienza in Australia, così diversa da ciò che aveva visto in Italia, gli ha fatto capire quanto la struttura influisca sulle persone che entrano in questo mestiere. È qui che, tornando a casa, ha iniziato a osservare con più attenzione il percorso dei ragazzi: come vengono formati, come si avvicinano alla ristorazione, dove si inceppa il meccanismo. Per Sardella il punto di partenza non sono i ristoranti, ma le scuole alberghiere, perché è lì che i ragazzi costruiscono la prima immagine della sala. Il problema, dice, è che spesso quella prima immagine resta troppo astratta: molta teoria, poca realtà. «Bisognerebbe portarli più spesso sul campo, vedere da vicino chi lavora, chi produce, chi crea. È lì che scatta la curiosità».

Senza questo passaggio iniziale è difficile che un giovane capisca davvero cosa significa lavorare in sala. E quando poi arrivano alle prime esperienze, la fragilità del sistema si vede subito: molti non trovano un percorso chiaro, non capiscono quali siano le tappe, non sanno dove possono arrivare né con quali tempi. Ed è lì che la motivazione rischia di spegnersi.

La sala che cambia: tra relazione, racconto e nuove abitudini nel bicchiere

È proprio guardando a queste difficoltà - la distanza tra scuola e realtà, la mancanza di percorsi chiari - che Sardella insiste sull’importanza di far conoscere la sala per ciò che è davvero. Perché è lì, nel lavoro quotidiano, che si capisce la complessità del mestiere e si misura la tenuta di chi vuole intraprenderlo. Non è una questione astratta: è un ambiente che vive di ritmi, relazioni e decisioni continue. La sala, per lui, è il punto in cui tutto converge: la cucinail vino, le persone, le storie. È lì che chi lavora deve imparare a leggere gli sguardi, intuire i gusti, capire quando parlare e quando lasciare spazio. «Fare il sommelier significa avere competenze tecniche, certo, però ti ritrovi spesso a fare quasi da psicologo. Devi intuire cosa vuole il cliente e come guidarlo». E non è una battuta.

Per avvicinare i giovani alla sala servono percorsi che vadano oltre i banchi di scuola

Domenico Sardella è stato inserito da Wine List Italia tra i 100 migliori sommelier italiani

Ogni servizio, infatti, mette in gioco una sensibilità diversa, un ascolto costante che permette di costruire un rapporto che va oltre la semplice scelta di una bottiglia. Negli ultimi anni questa dimensione si è poi ampliata, perché è cambiato anche il modo di bere e di comunicare il vino. Il calo dei consumi, secondo lui, non è un segnale negativo, ma il risultato di una maggiore attenzione. Cresce l’abitudine al calice, che dà ai clienti la possibilità di scegliere con più libertà, di assaggiare senza impegnarsi in una bottiglia intera e di muoversi tra territori e stili diversi. «Il calice ha cambiato molto la proposta. Aiuta chi vuole avvicinarsi con equilibrio e permette percorsi più personalizzati».

Questa evoluzione ha spinto anche la sala a ricalibrare il proprio ruolo: oggi il sommelier deve trovare un linguaggio più diretto, meno impostato, capace di raccontare un vino senza sovraccaricarlo. La narrazione non è un orpello, ma un ponte tra ciò che accade in vigna e ciò che arriva nel bicchiere. «Oggi il sommelier deve saper narrare. Devi portare il cliente nei territori che hai visto tu, anche solo per un momento». E quel momento, quando funziona, è la chiave di tutto: l’ospite percepisce un legame, non una lezione; una condivisione, non un monologo. «Il cliente deve sentirsi parte di qualcosa, non un destinatario passivo» aggiunge.

La sala va mostrata, non solo insegnata

Insomma, la trasformazione della sala - più relazione, più racconto, più ascolto - non è un dettaglio da addetti ai lavori: è il motivo per cui questo mestiere può ancora parlare ai giovani, se glielo si fa conoscere nel modo giusto. Perché per capire se la sala fa per te non basta una lezione o una descrizione: serve vedere come cambia il ritmo quando un tavolo entra, come si costruisce fiducia con un cliente, come si legge un contesto e si trova la parola giusta al momento giusto. È lì che si capisce quanto questo lavoro sia vivo.

Domenico Sardella

Bisognerebbe portare più spesso i giovani sul campo, nelle aziende, dai produttori. È lì che scatta la curiosità per le professioni di sala

Domenico Sardella Restaurant manager

Ed è qui che Sardella torna sul punto centrale: lo studio sui banchi è fondamentale, ma non può sostituire l’esperienza diretta. I ragazzi devono poter osservare da vicino proprio quel mondo fatto di scelte, sensibilità e narrazione che oggi definisce la sala moderna. Solo così possono capire se vogliono farne parte davvero. «È un lavoro che richiede energie enormi, però ti rimanda indietro tantissimo. Le soddisfazioni arrivano quando meno te le aspetti». In fondo, è questo che il settore dovrebbe provare a mostrare: non un mestiere di servizio, ma un luogo in cui si cresce costruendo relazioni reali. Se li porti anche fuori dai banchi, molti giovani scoprono che non è un ripiego, ma un percorso che forma carattere.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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