In Italia il bar è un’infrastruttura sociale quanto le edicole o le pensiline degli autobus. È un luogo di ritmo quotidiano: si entra, si ordina, si fa una pausa, si chiacchiera, si riparte. Tutto si consuma in pochi minuti, con la stessa rapidità con cui - spesso, troppo spesso - archiviamo mentalmente la figura che sta dall’altra parte del bancone. E questo è un grosso problema: il barista è diventato un lavoratore che immaginiamo provvisorio, intercambiabile, talvolta quasi anonimo. Oppure, al contrario, un amico con cui fare battute e confidenze, con cui parlare della partita di calcio della sera prima o dell’esito delle ultime votazioni. Insomma, una presenza anche importante, ma non per forza legata alla competenza, alla professionalità, alla cultura di quel che sta proponendo.
Eppure questo ruolo, se preso nella sua interezza, è uno dei più complessi della ristorazione contemporanea. Si gioca tra servizio, tecnica, cultura del prodotto, capacità narrativa, gestione di un flusso continuo di persone e richieste. Una professione che in altri Paesi ha assunto da anni lo status di competenza certificata, mentre da noi resta incastrata nell’idea del “lavoretto per mantenersi agli studi”.
Dove si può formare un barista?
Il risultato è un cortocircuito: pretendiamo qualità, ma ignoriamo la necessità della formazione. Vogliamo tazzine impeccabili, ma non ci chiediamo chi renda possibile quel risultato. In questo vuoto si muovono le scuole serie, quelle che negli ultimi anni hanno tenuto in piedi la professionalità del settore: centri tecnici, accademie certificate, laboratori indipendenti che formano baristi con metodi rigorosi, molto lontani dalla didattica improvvisata e superficiale a cui siamo abituati - ahinoi - nella gran parte dei nostri istituti alberghieri. Qui si studia l’origine del caffè, i profili sensoriali, la chimica dell’estrazione, il comportamento dell’acqua, le logiche delle filiere etiche. Si impara a decifrare aromi e difetti, a comprendere come lavorano i produttori nelle piantagioni, a valutare tostature, grind size, parametri. È una preparazione che confina più con la cultura alimentare che con la semplice operatività.

Sono diverse, in Italia e nel mondo, le scuole di formazione sul caffè
Ma quali sono queste realtà? Tra le più rinomate in Italia troviamo l’Accademia italiana maestri del caffè (Aicaf), che offre corsi per baristi e sommelier del caffè in diverse città come Milano, Roma, Napoli e Brescia. Un’altra istituzione di riferimento è la Espresso Academy di Firenze, che propone un’ampia gamma di percorsi di formazione, dalla latte art alla tostatura e analisi sensoriale. Anche la Deseo Academy e la Italian Food Academy offrono corsi specifici per chi desidera approfondire la conoscenza del caffè sotto tutti gli aspetti, dalla materia prima alla preparazione. Non possiamo dimenticare la Specialty Coffee Association (SCA), che propone un percorso di certificazione articolato in vari livelli e specializzazioni, coprendo ogni aspetto della filiera del caffè. La SCA suddivide la formazione in diversi moduli: introduzione al caffè, caffè verde, tostatura, sensory skills, brewing ed espresso. Questi corsi si concludono con esami teorici e pratici, e il conseguimento di certificazioni riconosciute a livello internazionale.
Il barista come ambasciatore del caffè
Ed è proprio da questa formazione che emerge la figura che il settore oggi reclama: il barista come ambasciatore del caffè. Una figura che non si limita a servire, ma che diventa interprete. Porta al cliente un prodotto complesso e lo traduce in un’esperienza comprensibile. Racconta le scelte dietro un caffè, le differenze tra un terroir e un altro, le ragioni per cui quella tazzina ha certe note e non altre. Non si tratta di estetismi: è un lavoro che crea consapevolezza, quella stessa consapevolezza che poi crea valore. Nel mercato internazionale questo ruolo è ormai standardizzato. I baristi vengono formati per rappresentare un’intera filiera: coltivatori, importatori, torrefattori, ricercatori. Ogni estrazione diventa un atto di mediazione culturale.

Il barista è un ambasciatore del caffè
In Italia, invece, la percezione pubblica non ha ancora seguito questa evoluzione. Continuiamo a vivere il bar come un dispositivo automatico; fatichiamo a vedere la professionalità che lo sostiene. Eppure la nuova generazione esiste. È fatta di persone che investono tempo e denaro per specializzarsi, che partecipano ai campionati nazionali e internazionali, che usano strumenti di analisi sensoriale, che lavorano con microlotti di qualità altissima e che riconoscono l’importanza della filiera agricola. Sono professionisti che chiedono dignità, standard, riconoscimento. E soprattutto chiedono di poter essere ciò che la loro formazione propone: rappresentanti autorevoli di un prodotto che l’Italia consuma in quantità industriali, ma conosce ancora poco.
Quello del barista è un ruolo strategico e fondamentale
Senza questa consapevolezza, continueremo a oscillare tra la nostalgia del “bar di una volta” e la fastidiosa quanto improbabile richiesta di qualità “a un euro”. È un dualismo sterile che non aiuta nessuno. Serve altro: serve un’idea chiara di mestiere sostenuta da scuole affidabili, investimenti seri, un nuovo immaginario professionale. Il barista ambisce a essere il primo contatto culturale tra il consumatore e il mondo del caffè. Se gli spazi formativi lo stanno già costruendo, tocca ora alla società - dai clienti alle imprese - accorgersi che quel ruolo è diventato strategico. E che il futuro di questo settore non si giocherà sulla velocità di un servizio, ma sulla qualità e sulla competenza di chi, ogni giorno, ha il compito di raccontare tutto ciò che quella tazzina contiene.