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Per l'export del vino italiano fino a un miliardo di euro in 8 Paesi

Si intravede potenzialità di export in Ucraina, Norvegia, Messico, Lettonia, Olanda, Francia, Slovacchia e Belgio. Vincenti approcci commerciali tutti da scoprire. Senza dimenticare di continuare a potenziare i tre Paesi principali a cui piace di più il bere italiano: Usa, Germania e Gran Bretagna. Per il settore insomma c'è terreno.

di Vincenzo D’Antonio
18 settembre 2020 | 08:30
Per l'export del vino italiano 
fino a un miliardo di euro in 8 Paesi
Per l'export del vino italiano 
fino a un miliardo di euro in 8 Paesi

Per l'export del vino italiano fino a un miliardo di euro in 8 Paesi

Si intravede potenzialità di export in Ucraina, Norvegia, Messico, Lettonia, Olanda, Francia, Slovacchia e Belgio. Vincenti approcci commerciali tutti da scoprire. Senza dimenticare di continuare a potenziare i tre Paesi principali a cui piace di più il bere italiano: Usa, Germania e Gran Bretagna. Per il settore insomma c'è terreno.

di Vincenzo D’Antonio
18 settembre 2020 | 08:30
 

Molto interessanti i dati relativi all’export del vino nel primo semestre 2020. E tutti doverosamente e correttamente a commentare che la wild card dell’andamento risiede nel flagello costituito dalla pandemia. Elementare. Proprio nel senso da porre ad elemento basilare della lettura dei dati. E se provassimo a fare anche lettura altra? Non dimentichiamo l’elogio del pressappoco. Dunque, l’export nel primo semestre 2020 ammonta a circa 3 miliardi, con decremento del 3% sul primo semestre dello scorso anno. Tre Paesi da soli fanno il 52% circa del nostro export: Usa, Germania e Gran Bretagna. I valori espressi in milioni di euro sono rispettivamente 736 (Usa), 514 (Germania), 342 (Gran Bretagna).

Un miliardo da 8 Paesi? - Vino italiano in 8 Paesi emergenti In gioco 1 miliardo di euro

Un miliardo da 8 Paesi?

Vogliamo porre questi valori in relazione alle popolazioni di questi tre Paesi e capire ogni statunitense, ogni tedesco, ogni britannico, quanti soldi ci dà in un semestre per bere il vino made in Italy? È una considerazione da fare. Le sintetiche ed asettiche risultanze: 2 € lo statunitense, 6 € il tedesco, 5 € il britannico. La media è 4 €. E lo teniamo a mente. Analizziamo quali sono i Paesi con il maggiore incremento del nostro export. Ucraina +36%; Norvegia +15%; Messico e Lettonia +13%; Olanda +12%; Francia +9%; Slovacchia e Belgio +8%.

E adesso cosa si fa? Poniamo che anche in questi Paesi ciascun abitante spenda 4€ per comprare vino made in Italy. Ma siamo così prudenti che questi 4€ li riteniamo validi su base annua e non semestrale. Ovvero, il ché è lo stesso, stiamo assumendo che diano la metà (2€) di quanto attualmente danno gli abitanti dei primi 3 Paesi assunti a benchmark. Ne sortisce che il valore complessivo, stante una popolazione complessiva di 275 milioni di abitanti, è di 1.100 milioni. Elogio del pressappoco insieme alla saggezza della massima prudenza: 1 miliardo di euro.

Due considerazioni: non si sta affermando che sarebbe 1 miliardo di euro incrementale, dacché sono proprio i dati citati a testimoniare che c’è già una base pregressa; non si sta affermando che è risultato raggiungibile in un anno. Si sta lasciando intravedere uno scenario emergente, tutto qui. Difatti si comprende, grazie all’inoppugnabile forza dei dati, che in 8 Paesi del mercato world wide l’attrattività del vino italiano mette in gioco 1 miliardo di euro.

La questione allora diviene essenzialmente di pertinenza del top management delle nostre aziende vitivinicole. Come approcciare questi mercati? La provocazione, sottoforma di pacato suggerimento, ci sia consentita. Non sappiamo come approcciare questi mercati emergenti. Sorry, ma proprio non lo sappiamo. Sappiamo però che quasi certamente non sarebbe efficace e valevole l’approccio sin qui adoperato con i tre Paesi che sono sul podio del nostro export. Insomma, non si tratterebbe di progettare l’incremento della presenza su questi mercati emergenti secondo la prassi commerciale dell’individuazione dell’importatore/distributore, così di fatto ragionando in ottica di sell-in e di push, con un’offerta affollata che spinge le vendite su una domanda erroneamente ritenuta malaccorta e disorientata. Si tratta, forse, di ragionare in termini di sell-out rivolgendosi prevalentemente all’end user e trattando tutto sommato lo stesso canale horeca quasi come se fosse anch’esso end user.

Come si può fare ciò? Attrezzandosi con somma professionalità, dove ciò sottende acquisizione di grande competenza, per agire professionalmente in rete. Fare in rete e-business e fare in rete e-commerce, che dell’e-business è un di cui. Non copiare, non clonare sebbene con aggiustamenti, pratiche consolidate che non è detto costituiscano ancora “buone pratiche”, bensì immaginare e poi progettare ed attuare le “nuove pratiche”. Ribadito che della rete, dell’e-business e del sotteso e-commerce non si possa fare a meno, si dovrà pensare in termini di cooperazione tra colleghi ancor prima che di sana competizione. Colleghi individuati non solo tra gli altri produttori di vino ma anche tra produttori di food, omogenei per territorio e/o per affinità di vedute.

Importante e delicato il ruolo dei consorzi. Fondamentale la preparazione e la formazione delle persone coinvolte. I tre Paesi sul podio sono mercati consolidati ed affollati con presenza di big players mondiali. Gli otto Paesi emergenti esprimono l’attraente potenziale di mercato world wide del quale non si potrà fare a meno per sviluppare le attività aziendali e per consolidare tutto il comparto vitivinicolo.

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