C’è una giornata mondiale per quasi tutto, e anche l’amaro ha la sua: il World Amaro Day (martedì 28 ottobre). Un’occasione per riflettere su un prodotto che più italiano di così non si può, ma che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con un cambio di abitudini profondo. I dati 2024 di Federvini - gli ultimi disponibili - raccontano, purtroppo, una tendenza chiara: nel canale fuori casa, la categoria “amari e dopo pasto” ha segnato un ulteriore calo complessivo delle consumazioni del 3% (dopo il -6% dell’anno precedente).
Giovani, prudenza e patenti: gli amari non si ordinano più
A incidere non è solo il ricambio generazionale - con i giovani sempre più distanti dagli alcolici, in generale - ma anche un certo clima di prudenza che si è consolidato nell’ultimo anno. Lo sottolinea Valerio Beltrami, presidente di Amira (Associazione maitres italiani ristoranti ed alberghi), che conosce bene la realtà della ristorazione italiana: «Negli ultimi tempi c’è stato un vero e proprio terrorismo mediatico attorno alla questione del ritiro delle patenti. Il risultato è stato un crollo generalizzato dei consumi di alcolici e superalcolici, che tutt’ora percepiamo: se è calato il vino, figuriamoci gli amari. Oggi proporre, e perfino offrire, un digestivo è diventato complicato e, se non si trovano soluzioni, l’amaro rischia davvero di sparire dalle tavole dei ristoranti».

Valerio Beltrami, presidente di Amira
Il riferimento è, naturalmente, alla stretta sul Codice della strada, voluta dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini ed entrata in vigore a fine 2024 e che, a cascata, continua ancora oggi a far sentire i suoi effetti: un’ondata di timori, controlli più frequenti e un generale irrigidimento che ha cambiato il modo in cui molti vivono il “dopo cena”. «Nelle città e nelle località turistiche la situazione è diversa, perché ci si sposta a piedi o coi mezzi, ma fuori dai centri è complicato. Con il caro vita, chi spenderebbe 80 euro, o più, di taxi per tornare a casa?» aggiunge Beltrami. Una constatazione amara, nel vero senso della parola.
Un’eredità antica che parla ancora italiano
Eppure, nonostante tutto, la cultura dell’amaro resta una delle eredità più importanti della tradizione italiana. Infatti, ricordiamo, già nell’antica Roma si preparavano infusi di erbe nel vino con finalità curative, poi i monaci medievali perfezionarono le ricette sostituendo il vino con l’alcol distillato e arricchendole di botaniche dalle proprietà officinali.

La cultura dell’amaro resta una delle eredità più importanti della tradizione italiana
Con il Rinascimento quelle "pozioni" uscirono dai monasteri e divennero un piacere da gustare, fino a trasformarsi nei secoli in un vero linguaggio del territorio: ogni area d’Italia ha praticamente sviluppato il proprio amaro, con aromi, piante e profili gustativi diversi.
Un patrimonio da ritrovare, tra bancone e sala
Oggi quel patrimonio liquido chiede solo di essere riscoperto. Nella mixology, l’amaro non è mai scomparso del tutto: è rimasto in disparte, spesso dimenticato, ma con un potenziale enorme. Lo ricordano le parole di Luca Rossetto, bartender e anima dell’Hanky Panky di Mestre (Ve): «Gli amari sono tutti diversi e hanno una ricchezza aromatica che nei liquori più semplici non trovi. Hanno quell’effetto legante che tiene insieme un drink, lo completa, lo bilancia. A volte bastano poche gocce per far emergere un equilibrio nuovo. È un po’ come il sale nella pasta: non lo noti, ma se manca, lo senti».

Luca Rossetto, bartender e anima dell’Hanky Panky di Mestre (Ve)
Un ingrediente invisibile, ma capace di dare identità a un cocktail. Eppure, oggi è quasi dimenticato. Serve tempo, curiosità e conoscenza per riportarlo al centro, per restituirgli la dignità di componente nobile e non di residuo del dopo cena. Dentro un amaro ci sono botaniche che raccontano territori, stagioni, culture: un sapere antico che aspetta solo di essere rimesso in circolo, magari proprio dietro al bancone. E questa riscoperta non può che passare anche e soprattutto dalla sala, dove il contatto diretto con il cliente resta decisivo. Lo sottolinea Rudy Travagli, maitre e presidente di Noi di Sala: «Il ruolo del maitre (e del cameriere) è fondamentale. Proporre un amaro serve non solo a fare upselling, ma a raccontare un territorio. Io produco un amaro al cardo di Cervia e al ristorante riusciamo a farlo conoscere proprio perché chi lo serve sa raccontarlo».

Rudy Travagli, maitre e presidente di Noi di Sala
Per Travagli, la chiave, come sempre, è la formazione, intesa come esperienza viva, fatta sul campo. «La formazione è la base di tutto. Bisogna girare, vedere, conoscere. Gli amari possono entrare anche in altri contesti: nei piatti, nei signature. È il momento di sperimentare. L’amaro resta un prodotto popolare, accessibile, ma serve qualcuno che sappia valorizzarlo, farlo assaggiare, spiegare la sua storia». Il servizio, allora, diventa un atto di mediazione culturale: un ponte fra la tradizione e il presente, fra un gesto quotidiano e una memoria collettiva che rischia di svanire. Perché se è vero che il bicchiere dell’amaro si svuota sempre meno spesso, è altrettanto vero che ogni volta che lo si versa si riempie di identità.
Spiriturismo, la strada italiana per far rinascere gli amari
Ma la rinascita degli amari passa anche da un altro fronte: quello del turismo. Mentre in Scozia il whisky muove milioni e attira visitatori da tutto il mondo, l’Italia resta seduta su un tesoro ancora poco sfruttato. Abbiamo distillerie storiche - un nome su tutti è quello di Caffo che attira ogni anno curiosi e ospiti da tutto il mondo - , architetture firmate da grandi designer e un patrimonio di saperi che attraversa il Paese da nord a sud. In tanti territori la tradizione dei liquori e dei distillati potrebbe diventare un motore per l’economia locale, ma manca ancora un sistema capace di mettere insieme produzione, accoglienza e racconto.
Lo spiriturismo è, quindi, un’occasione che aspetta solo di essere colta. Potrebbe dare nuova vita alla grappa, ai liquori regionali e agli amari artigianali, riportando le persone nei luoghi dove tutto nasce. E soprattutto potrebbe far riscoprire cosa c’è davvero dietro un bicchiere: lavoro, territorio, cultura. Perché, più che una categoria di prodotto, l’amaro è un pezzo d’Italia. E la domanda, oggi, non è se tornerà di moda, ma se saremo capaci di ridargli spazio nel nostro modo di vivere. O si investe ora - nelle persone, nei luoghi e nella cultura del bere consapevole - oppure il rischio è che quell’amaro, così nostro, resti solo nel nome.