«Il vino è una droga, tossica e cancerogena». È questa l’accusa lanciata dallo psichiatra avezzanese Adelmo Di Salvatore, che nel volume “Vino - Diverse etichette, le avvertenze negate”, scritto con Enrico Baraldi e Alessandro Sbarbada, propone avvertenze sanitarie stile pacchetti di sigarette (sulla scia del modello irlandese, inizialmente previsto per il 2026, poi rinviato al 2028 e oggi nuovamente rimesso in discussione) e definisce il vino “veleno cellulare”. Un’affermazione così estrema che ha fatto andare su tutte le furie il mondo del vino dell’Abruzzo - e non poteva andare diversamente, visto che mettere il vino nella stessa categoria delle droghe significa ignorare la storia, la cultura alimentare e perfino il buon senso.
Le risposte all’accusa: «Il problema non è il vino, ma l’abuso»
La prima risposta è arrivata da Angelo Radica, presidente dell’Associazione nazionale Città del Vino, che non ha lasciato spazio a interpretazioni: «Il vino non è affatto dannoso per la salute: il danno e il pericolo insorgono con l’abuso». Una distinzione elementare, eppure regolarmente ignorata ogni volta che si alimentano narrazioni allarmistiche capaci di mettere sullo stesso piano una bevanda da pasto e una sostanza stupefacente.

Il problema non è il vino, ma l’abuso
Sulla stessa linea si è poi posizionata Coldiretti Abruzzo. Il presidente regionale Pietropaolo Martinelli e il presidente di Coldiretti Chieti, Pier Carmine Tilli, hanno infatti parlato di un tentativo di «demonizzare il prodotto più rappresentativo della nostra regione, frutto del lavoro di migliaia di viticoltori». E qui si tocca un punto cruciale: definire il vino una droga non è solo un errore scientifico, ma una mancanza di rispetto verso un intero settore agricolo che tiene in piedi comunità rurali, economia, paesaggio e identità culturale.
Anche la politica regionale ha ritenuto necessario intervenire. Il vicepresidente della Regione Abruzzo e assessore all’Agricoltura, Emanuele Imprudente, ha ricordato che il vino è «parte viva della storia dei nostri territori e della nostra economia rurale», oltre che elemento della dieta mediterranea e prodotto identitario dell’Abruzzo. Sono parole che riportano il discorso nel suo contesto naturale, perché non esiste Abruzzo senza vigneti, senza cantine, senza il legame quotidiano tra le famiglie e la produzione vitivinicola. Non si parla di un vizio da reprimere: si parla di una cultura che ha modellato territori, tradizioni e relazioni sociali.
Cosa dice davvero il mondo: tra Onu, Oms e responsabilità
E mentre in Italia si riaccende l’ennesima polemica, fuori dai nostri confini la prospettiva, ricordiamo, è molto diversa. Le Nazioni Unite, nelle più recenti dichiarazioni politiche, non hanno mai parlato di vino come droga: il loro lavoro si concentra sulla riduzione dell’uso dannoso dell’alcol e sulla distinzione, sempre più chiara, fra abuso e consumo culturale e consapevole. Su questa linea si muove anche l’Organizzazione mondiale della sanità, l’agenzia specializzata dell’Onu che si occupa di salute pubblica. Nei suoi documenti non c’è traccia di proibizionismo né di demonizzazioni: si parla di educazione, informazione corretta e responsabilità individuale. Un approccio opposto alle semplificazioni che trasformano ogni bicchiere in un allarme sanitario.
Perché in Italia il vino non è “un problema”: è cultura, paesaggio, equilibrio
Ed è proprio qui che il ragionamento torna all’Italia. Perché se sul piano europeo e mondiale la distinzione tra abuso e consumo consapevole è ormai la base di qualsiasi politica seria, da noi capita ancora che il vino venga trattato come un anomalo da correggere o un problema da eliminare. In realtà non lo è affatto. Il vino è un prodotto agricolo che vive dentro le comunità, nei paesaggi e nelle cucine; è cresciuto insieme alla dieta mediterranea e ai suoi tempi, pensato per accompagnare il cibo e non per essere consumato in modo slegato dal contesto. Riconoscere che l’alcol richiede attenzione non significa cancellare questa storia, ma ricordare che l’unico vero discrimine è l’abuso.

Il vino in Italia è cultura, paesaggio, equilibrio
Insomma, paragonare un bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo a una sostanza stupefacente significa perdere di vista il modo in cui il vino è sempre stato vissuto nel nostro Paese: legato al cibo, ai ritmi familiari, alla socialità. È dentro questo contesto che il consumo trova il suo equilibrio, ed è qui che l’Italia ha costruito un modello che funziona: conoscere ciò che si beve, scegliere bene e mantenere la misura. È una cultura che non ha mai negato la necessità di responsabilità, ma che rifiuta le semplificazioni che trasformano un prodotto agricolo in un simbolo di pericolo. Perché a proteggere davvero le persone non sono gli allarmi gridati, ma la capacità di educare, informare e mantenere vivo un rapporto consapevole con ciò che portiamo in tavola.