La saga vinicola dei Mastroberardino in Irpinia è antica e, come ogni dinastia che si rispetti, non priva di colpi di scena. Nel 1994 va in scena una “separazione coniugale” aziendale: i fratelli Antonio e Walter Mastroberardino, alla guida della storica cantina di famiglia, prendono strade diverse Walter, all’epoca sessantenne, un’età in cui di solito ci si gode la pensione, sorprende tutti ritirandosi solo dal cognome di famiglia, non certo dal vino. Con il sostegno fondamentale della moglie Dora Di Paolo, e coinvolgendo i figli Daniela, Lucio e Paolo, Walter fonda un’azienda tutta nuova a Montefusco, nel cuore dell’Irpinia. Nasce Terredora Di Paolo.

Walter, Paolo, Lucio e Daniela Mastroberardino
Il nome è un omaggio a Dora, quasi a sottolineare che questa terra avrebbe avuto un’anima diversa dalla casa madre. Si parte in piccolo, con appena dieci ettari di vigneti iniziali, ma l’ambizione è grande. Nel giro di pochi anni il progetto decolla: già nel 1998 la superficie vitata supera i 100 ettari, fino ad arrivare ai quasi 200 ettari odierni, il che rende Terredora uno dei maggiori produttori del Sud Italia. Oggi la cantina produce oltre un milione di bottiglie l’anno, segno che la scommessa del patriarca ha pagato.
I protagonisti: tra tradizione e nuove generazioni
Al centro della scena Walter Mastroberardino, definito non a caso “patriarca del vino campano”. Classe 1933, sangue irpino verace, Walter nel secondo dopoguerra girava l’Italia con un’auto carica di bottiglie, un po’ come i pionieri piemontesi Giacomo Bologna e Angelo Gaja, suoi contemporanei. A lui si deve in buona parte la diffusione moderna di vini come Aglianico, Fiano e Greco, prima nel resto d’Italia e poi nel mondo. E non solo: fu tra i fondatori dell’Associazione Italiana Sommelier negli anni ’60. Nel 2025 Walter si è spento all’età di 92 anni nella sua Montefusco. Accanto a lui, sin dall’inizio, c’è stata Dora Di Paolo, la matriarca il cui nome campeggia sull’etichetta. Defilata e schiva, Dora è stata però l’ispirazione e il cuore silenzioso dell’azienda. Non a caso, “Terre-dora” è anche un gioco di parole con terra d’oro, e la terra, si sa, è spesso declinata al femminile. Il futuro dell’azienda, oggi, è nelle mani della seconda generazione. In particolare di Paolo e Daniela Mastroberardino. Il terzo fratello, Lucio, è stato tragicamente sottratto troppo presto al vino e alla vita.

Daniela e Paolo Mastrobernardino
Lucio Mastroberardino, enologo talentuoso e uomo-simbolo della rinascita irpina, è stato il winemaker di Terredora fin dagli esordi e l’artefice di molti suoi successi. La sua carriera fu fulminante: a Londra, nel 2006, venne persino candidato come “Winemaker of the Year” nella categoria vini bianchi all’International Wine Challenge. Lucio aveva appena 45 anni quando nel gennaio 2013 fu vinto da una malattia. All’epoca ricopriva anche il ruolo di presidente dell’Unione Italiana Vini, voce autorevole dell’enologia nazionale. La sua perdita fu un colpo durissimo, ma la famiglia reagì con unità. Paolo Mastroberardino, enologo come Lucio, da allora è tornato stabilmente in cantina a occuparsi della produzione, dopo anni dedicati al lato commerciale. Daniela Mastroberardino, invece, è il volto pubblico dell’azienda: si occupa di export e delle relazioni esterne. Donna di grande energia, Daniela è molto attiva anche oltre i confini aziendali; è stata presidente regionale del Movimento Turismo del Vino ed è Presidente dell’associazione nazionale Le Donne del Vino, attraverso la quale porta la voce del Sud Italia in contesti spesso dominati dai blasoni del Nord. Insomma, da un lato radici profondissime e rispetto per la tradizione; dall’altro uno spirito manageriale moderno, aperto al mondo e ben rappresentato dal dinamismo dei suoi eredi.

Lucio Mastroberardino
Tradizione 2.0: filosofia produttiva e stile enologico
Terredora di Paolo si è posta fin da subito la missione di valorizzare gli antichi vitigni autoctoni della Campania reinterpretando la tradizione in chiave moderna. L’azienda è oggi considerata un “faro” della viticoltura irpina, uno dei punti di riferimento più solidi del “Rinascimento” enologico campano. Ma cosa significa, nel concreto, tradurre la storia in innovazione? Innanzitutto controllo della filiera. La famiglia ha puntato tutto sui propri vigneti, una scelta non scontata in una zona dove storicamente molte cantine acquistavano uve da conferitori. Walter e figli, insomma, decisero di investire sulla vigna prima ancora che sulla cantina: nuovo nome, stessi territori di origine ma gestione totalmente autonoma.

Terradora Di Paolo conta oggi su quasi 200 ettari di superficie vitata
La moderna winery viene costruita a Montefusco, dotata di tecnologie d’avanguardia, ma con l’obiettivo di custodire e valorizzare il patrimonio varietale locale. “Innovazione, conoscenze e uomini capaci di cogliere le sfide del futuro”, recitano le motivazioni del Premio Internazionale Vinitaly conferito a Terredora nel 2013. In altre parole, Walter e Lucio hanno saputo circondarsi di un team tecnico di primo livello, aperto al nuovo ma rispettoso della tradizione secolare di Irpinia, una terra dove la vite cresce fin dall’epoca greco-romana
I vini iconici: Taurasi, bianchi d’Irpinia e altre storie
Veniamo ora ai veri protagonisti del palcoscenico Terredora: i vini. In poco più di vent’anni, la cantina ha messo insieme un portafoglio ampio, ma restano cinque i pilastri fondamentali, corrispondenti ai grandi vitigni autoctoni irpini. Eccoli in dettaglio:
Taurasi Docg “Fatica Contadina” (Aglianico)
È il vino-bandiera dell’azienda, nonché uno dei Taurasi più premiati e riconosciuti della denominazione. Il nome poetico omaggia il duro lavoro nei campi che sta dietro ogni bottiglia. Questo Taurasi nasce da uve Aglianico in purezza provenienti dai vigneti collinari di Lapio e Montemiletto (tra 400 e 550 m di altitudine), fermentate con lunga macerazione e poi elevate in legno piccolo per circa un anno e mezzo. Il risultato è un rosso potente ma aggraziato, capace di evolvere per decenni.

Taurasi Docg “Fatica Contadina” (Aglianico)
Una curiosità: Terredora produce anche due selezioni speciali di Taurasi, il “CampoRe” Riserva (da vigne alte in territorio di Lapio, affinato più a lungo) e il “Pago dei Fusi” (cru da un singolo vigneto a Santa Paolina). Sono interpretazioni ancor più rare e di nicchia: il Pago dei Fusi, ad esempio, uscì per la prima volta con l’annata 2003, voluto da Lucio per dimostrare che l’Aglianico di un pagus particolare meritava un’identità a sé. Ma il Taurasi Fatica Contadina resta l’epitome dello stile Terredora: un “barolo del Sud” (come viene chiamato il Taurasi) fiero delle proprie origini contadine e insieme all’altezza dei palati più esigenti.
Fiano di Avellino Docg
Terredora coltiva Fiano in diverse parcelle dell’Avellinese (Montefusco, Lapio, Santo Stefano del Sole), tra i 500 e i 650 metri di quota. Il Fiano base affina in acciaio ed esce dopo circa un anno dalla vendemmia: è un bianco di notevole finezza, dagli aromi floreali e fruttati netti. Pera Williams, mela Golden, agrumi, nocciola e miele leggero compongono il suo bouquet, spesso arricchito da sfumature affumicate tipiche del vitigno.

Fiano di Avellino Docg
Al sorso è succoso e sapido, con un corpo medio e un’acidità ben presente che regala slancio e longevità. Terredora produce inoltre una Riserva di Fiano chiamata “Ex Cinere Resurgo” (dalla vigna storica di Lapio): fermentata e maturata in botte grande, è un Fiano ancor più complesso, strutturato e longevo, pensato per mostrare il lato austero di questo antico vitigno (tanto che è dedicato alla rinascita post-terremoto del territorio).
Greco di Tufo Docg “Loggia della Serra”
Il Greco è il terzo grande bianco irpino, e Terredora ne possiede alcuni dei vigneti più alti e vocati: a Santa Paolina e soprattutto a Montefusco (contrada Serra), su suoli calcarei e gessosi ricchi di minerali di zolfo. Si tratta di terroir così estremi che qualcuno li definisce “inospitali” per pendenze e clima, e proprio per questo capaci di forgiare vini di grande carattere. La vigna Loggia della Serra è una delle più alte, a oltre 600 metri di altitudine su terreno calcareo, e regala un Greco di Tufo dalla spiccata ricchezza e mineralità.

Greco di Tufo Docg “Loggia della Serra”
Al naso si colgono spesso sentori di albicocca matura, pesca gialla, agrumi canditi e mandorla, con sfumature di erbe aromatiche e quella nota di pietra focaia che tradisce il suolo sulfureo. In gioventù può essere quasi burroso al palato, data la struttura piena, ma sempre sorretto da un’acidità vivace e una sapidità salina marcata. Il finale, asciutto e mandorlato, invoglia continuamente al sorso. Un consiglio: provate a mettere via qualche bottiglia per 4-5 anni e vi ritroverete nel bicchiere un vino dorato, avvolgente, con profumi di idrocarburo e miele che ricordano certi Riesling evoluti.
Falanghina Irpinia Doc “Corte di Giso”
In un panorama dominato da denominazioni nobili (Docg e affini), c’è anche spazio per un’umile Igt che ha saputo brillare sulla ribalta mondiale. La Falanghina “Corte di Giso” di Terredora - vino di pronta beva, affinato solo in acciaio - è stata protagonista di un episodio storico: la sua annata 2004 è entrata nella Top 100 di Wine Spectator del 2006, unica Falanghina in classifica, piazzandosi al numero 76. Uno smacco ai pregiudizi che vogliono questo bianco autoctono “minore”: evidentemente, in mano a Terredora, anche la Falanghina può raggiungere livelli da applausi.

Falanghina Irpinia Doc “Corte di Giso”
Si tratta di un vino di grande piacevolezza, giocato su aromi fragranti di mela verde, ananas, cotogna e pera. Il sorso è fresco, pulito, di ottima acidità, con corpo medio-leggero e una vena quasi salina che ne esalta la bevibilità. Un bianco perfetto come aperitivo o in abbinamento a piatti di mare e fritti, che però, come dimostrato, non sfigura affatto nemmeno davanti alla critica più esigente.
Aglianico Campania Igt
Oltre al Taurasi, Terredora propone anche una versione più giovane e snella dell’Aglianico, etichettata come Igt Campania. Vinificato in solo acciaio (o con breve passaggio in legno grande), questo rosso è concepito per mostrare il lato più fragrante e versatile dell’uva principe del Sud.

Aglianico Campania Igt
Colore rubino intenso, profumi di amarena, violetta e spezie; struttura comunque di tutto rispetto (l’Aglianico è naturalmente ricco di tannini e acidità), ma tannini più morbidi e un frutto più croccante rispetto al fratello maggiore Taurasi.
Un terroir vulcanico tra montagne e lupi
Cosa rende speciali questi vini? La risposta è scritta nella terra da cui provengono. Siamo nell’entroterra montuoso della Campania, in provincia di Avellino, lontani dal mare e circondati dagli Appennini. Terredora ha sede a Montefusco, antico borgo a circa 650 metri di altitudine che fu persino capoluogo di provincia al tempo dei Borbone. Attorno si stendono colline verdissime, vallate segnate dai fiumi Sabato e Calore, boschi di querce e noccioli. Qui l’azienda possiede la maggior parte dei suoi vigneti: 200 ettari distribuiti in varie sottozone, tutte caratterizzate da altitudini elevate (in media tra 350 e 650 m s.l.m.) e microclimi freschi. L’Irpinia, infatti, è il territorio più montuoso della Campania: gli inverni possono essere rigidi, le estati mai torride come in altre parti del sud, e, soprattutto, le escursioni termiche giorno/notte sono marcate. L’uva matura lentamente, sviluppando aromi complessi senza perdere acidità, e i profumi restano vividi. Non è un caso se proprio qui nascono i bianchi meridionali più longevi d’Italia e rossi di grande finezza tannica: merito del raffreddamento notturno che fissa gli aromi nelle bucce e mantiene alto il tenore acido.
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Dal punto di vista geologico, l’Irpinia è un vero mosaico
Dal punto di vista geologico, l’Irpinia è un vero mosaico. I suoli combinano argille e marne calcaree di origine appenninica con depositi di ceneri vulcaniche e pomici provenienti dalle eruzioni del Vesuvio e del vicino massiccio montuoso vulcanico (Monte Tuoro, Monti del Partenio). In particolare, nelle zone del Greco di Tufo affiorano livelli sulfurei (gessi) che donano ai vini quella tipica nota minerale fumé, mentre nelle aree dell’Aglianico prevalgono terre brune e rossastre ricche di ossidi di ferro. I vigneti di Terredora beneficiano di questa complessità: a Santa Paolina e Montefusco, filari di Greco affondano le radici in banchi di tufo giallo e calcare; a Lapio, le vigne di Fiano godono di terreni argillosi-calcarei esposti ai venti; a Pietradefusi e Venticano, dove maturano le uve per il Taurasi, c’è più argilla e sabbia di matrice vulcanica. In generale sono suoli magri, drenanti e minerali, che costringono le viti ad andare in profondità per alimentarsi. Questo si traduce in uve concentrate e ricche di estratto, ma anche in una cifra gustativa di spiccata sapidità. Spesso degustando un vino di Terredora si percepisce quasi il “respiro” della terra irpina: che sia la grafite e il ferro nel Taurasi, o il soffio di zolfo nel Greco, o ancora quel ricordo di nocciola tostata nel Fiano (le colline di Avellino sono costellate di noccioleti, e chissà che qualche radice di vite non ne abbia carpito l’essenza). E anche l’occhio vuole la sua parte: i vini hanno colori intensi e vivi, quasi a rispecchiare i paesaggi assolati e l’energia tellurica del sottosuolo.
Un marchio d’eccellenza tra critica e mercato
Oggi il marchio Terredora è sinonimo di eccellenza irpina. Merito di una comunicazione efficace, ma soprattutto di una coerenza qualitativa che ha convinto anche i palati più scettici. Non si sono mai nascosti i natali mastroberardiniani, ma si è sempre parlato di Terredora come di un progetto nuovo, innovativo fin dalla genesi (il fatto stesso di aver dato all’azienda un nome non coincidente col cognome è un segnale di modernità, soprattutto al Sud). Una storia fatta di coraggio imprenditoriale e di legami familiari fortissimi. Viene da pensare che se il vino è passione e rischio, allora Terredora è vino nel senso più pieno del termine. Cin cin, Irpinia!
Contrada Serra 83030 Serra (Av)