Sul Lago di Como tutto parla la lingua del lusso, ma il lusso, quello vero, è un’idea sottile. È equilibrio, leggerezza, esattezza, per citare Calvino. Raffaele Lenzi cucina in un albergo che è già da solo un manifesto estetico, progettato da Patricia Urquiola con la complicità del paesaggio di Torno. Il Sereno al Lago è un luogo con che ha la missione di pareggiare la bellezza che lo circonda con quella del piatto.

Tortelli, agnello, ras el hanout, the verde
Raffaele Lenzi: gli inizi tra grandi maestri e cucine d’albergo
Napoletano, formatosi all’estero, poi tornato in Italia a scegliersi i maestri uno per uno, Raffaele Lenzi, classe ’84, non ha mai mandato un curriculum. «Ho sempre scelto io dove andare a lavorare». La formazione è selettiva, mirata: Barbieri, Sironi, Lavarra, Baiocco. Strutture alberghiere d’élite, cucine rigide, ambienti dove il margine d’errore non è previsto.

Lo chef Raffaele Lenzi
A Palazzo Sasso, a Ravello, c’è un’idea molto precisa di sacrificio: «Per sviluppare un certo modo di lavorare, bisognava essere disposti a molto. Lì ho imparato la resilienza, nel senso vero del termine». Al Bulgari di Milano, allora guidato da Elio Sironi, il modello è quello della brigata ampia, complessa, da maneggiare senza confusione. «Pretendere, ma dare: è lui che me lo ha insegnato».
Poi la Villa Feltrinelli, con Stefano Baiocco. Qui il dettaglio si fa quasi “ossessione”. «Un insegnamento che ti resta».
L’autonomia arriva con l’Armani
L’autonomia, però, arriva con l’Armani, un’apertura che cambia tutto. «Essere chef in una struttura così significa imparare davvero cosa comporta tenere assieme trenta cuochi, un’identità, un servizio». La responsabilità è portata come un dato, una sorta di progressione logica, nella quale ogni tappa ha un suo perché operativo.
Il Sereno al Lago: nove anni dentro un progetto stabile e curato
Lenzi ormai lavora da dieci stagioni al Sereno al Lago. La considera casa sua, e non per modo di dire. La permanenza non è legata a una fase, a un passaggio, a una stagione favorevole. Piuttosto a un senso di appartenenza costruito nel tempo, alla possibilità concreta di far crescere una cucina dentro un luogo pensato con estrema cura. «Siamo cresciuti anno dopo anno. Il lavoro si è strutturato con pazienza, con costanza. Abbiamo avuto la fortuna di avere una proprietà che ci ha lasciati lavorare, ascoltando soprattutto gli ospiti».

La vista dalla terrazza del ristorante Sereno al Lago
La posizione, la struttura, il contesto architettonico firmato da Patricia Urquiola, la storia della famiglia Contreras che guida l’hotel, tutto concorre a costruire un ambiente in cui la cucina deve stare al passo del luogo. «Scherzo spesso dicendo che il mio primo concorrente è la signora Urquiola. Il livello della struttura obbliga a non distogliere mai l’attenzione. L’ambiente è un riferimento costante, tiene viva la tensione nostra, del team, del progetto».
L’impronta gastronomica si è evoluta, ma sempre dentro un quadro coerente. Il menù “Omaggio alla tradizione” tiene insieme i piatti più noti della cucina italiana, riscritti secondo criteri di pulizia e misura. Gli altri percorsi, “Vegetali, tuberi e radici” e “A modo mio”, lasciano spazio all’invenzione personale. È su questi che si misura la libertà. «A partire da una base vegetale che per me resta centrale, costruiamo piatti che raccontano un’idea molto chiara: concretezza, leggerezza, essenzialità. E questo non vale solo per me, ma per tutta la squadra».
“A modo mio”: un nuovo menù per ripartire dopo otto stagioni
Per otto anni il titolo del menù degustazione più identificativo è stato “Contrasti e contraddizioni”. Un titolo che non serviva per ammiccare a una complessità teorica; serviva per lasciare spazio a una ricerca ancora aperta. Il titolo anticipava la possibilità di incertezze, il margine dell’errore, la legittimità di un giudizio che non fosse immediatamente complice. «Abbiamo avuto la libertà di sbagliare, di provare piatti che potevano anche non piacere. Era un titolo provocatorio, ma ci ha permesso di andare in profondità».

Il menù proposto da Sereno al Lago
Il tempo, però, ha fatto la sua parte. Dopo otto anni, quella formula aveva esaurito la spinta. Non perché le contraddizioni fossero state risolte, ma perché quel contenitore rischiava di diventare un limite. «Avevo bisogno di uno slancio, di una nuova direzione. Nove anni nello stesso luogo sono una grande fortuna, ma anche una responsabilità. Trovare un nuovo inizio dentro la continuità era essenziale».
Nasce così “A modo mio”, non come forma d’autocompiacimento, ma come dichiarazione nitida. Il titolo non ha bisogno di spiegazioni. «Racconta il mio modo di cucinare, in tutta la sua sincerità. Che si tratti di un piatto della tradizione o di un’elaborazione personale, il senso è quello. La cucina che propongo è quella in cui credo». Il vegetale resta la base come fondamento strutturale. Legumi, ortaggi, radici sono l’ossatura dei piatti, anche quando entrano in dialogo con una proteina animale. Dentro quel titolo asciutto, c’è anche una nota affettiva. Una citazione nascosta, forse non necessaria per chi siede a tavola, ma significativa per chi lavora in cucina. «Sono molto legato a Lucio Dalla. Mio figlio si chiama Lucio».
Ortaggi e legumi come struttura: una cucina che parte dalla terra
«Per me il vegetale è l’essenza. Può stare da solo, ma soprattutto può definire anche un piatto che include carne o pesce. Cambia il modo in cui si costruisce la ricetta, cambia il baricentro». Il dato non nasce in cucina, ma molto prima. «Sono figlio di infermieri, a casa non c’erano piatti elaborati, ma varietà sì. Mia madre ci obbligava a mangiare tutto: carne, pesce, verdura. Però i miei ricordi più forti restano quelli legati ai contorni. Era lì che si scatenava la festa. Ce n’erano in quantità, spesso più della portata principale».

Tempeh di fagioli Zollino al barbecue, bruscandoli
I vegetali nei suoi piatti hanno un ruolo funzionale, tecnico e narrativo. E sempre più spesso, anche emotivo. I legumi, ad esempio, sono una base profonda. «Nel menù di quest’anno chiudiamo il percorso salato con un tempeh, in cui si racconta l’Italia a partire dai fagioli zolfino. È un piatto vegetale a tutti gli effetti, ma ha la forza, la succulenza, la densità che serve per terminare un menù degustazione. E, soprattutto, piace anche a chi non si aspetta una fine così».
Quella decisione è l’effetto di un lavoro lungo, stratificato, che ha progressivamente rovesciato le aspettative. «Negli anni abbiamo provato anche a chiudere con una cruda di carne. Ma poi abbiamo sentito la necessità di essere più coerenti con la nostra idea. E quando lo spieghi, l’ospite si affida».
Grassi ridotti, sapori nitidi: un metodo che non fa sconti
Usare «poco grasso, poco zucchero e poco sale» per Raffaele Lenzi è un metodo. È così che nasce il valore aggiunto del piatto. La cucina si costruisce su materie prime di qualità, certo, ma il senso si trova nei dettagli. «I condimenti devono essere il quid che migliora, non il sapore del piatto stesso».

Rombo, estrazione di manzo, mole verde, cialda di pollo
In questa linea convergono concretezza, leggerezza e essenzialità. Sono le tre parole con cui Lenzi descrive la propria cucina. «Per me ogni piatto, che abbia due, tre, quattro o cinque elementi, deve essere capace di raccontare questo». L’attenzione non è sulla quantità, ma sulla coerenza. Gli ingredienti sono pochi, ma il messaggio dev’essere chiaro.
Il riscontro dell’ospite conferma la direzione. «Alla fine di ogni menu ci viene sempre detto che non si sentivano appesantiti, ma che avevano mangiato con gusto».
Il dessert si sposta: meno zucchero, più idee, anche vegetali
Raffaele Lenzi è nipote di una pasticciera classica napoletana. Il suo primo contatto con il mondo della cucina non è avvenuto dietro una linea, ma tra burro, zucchero e sac à poche. «Ho iniziato prima in pasticceria, poi in cucina», dice. Eppure, da quell’origine dolce ha tratto una strada molto diversa. «I nostri dessert hanno un bassissimo contenuto di zuccheri, con grassi equilibrati». L’equilibrio diventa una forma di lucidità, un modo per evitare l’eccesso, senza rinunciare alla precisione. Non si tratta di fare meno, ma di fare meglio. Anche la piccola pasticceria, più tradizionale, segue questa linea: proporzionata, attenta, calibrata sulla chiusura.

Il dessert Fiesta di Sereno al Lago
Il dolce, nel percorso di Lenzi, apre un’altra porta. «Anni fa abbiamo proposto una panna cotta con cavolfiore, aglio nero e vaniglia. L’anno scorso un semifreddo al mahleb, ceci e arance». Niente zucchero caramellato, niente consistenze da repertorio. Solo l’idea che anche l’ultima portata possa spostare l’asse della cena.
Il vegetale entra così anche nella pasticceria. Con rispetto, ma senza deferenza. La chiusura può essere salata, o almeno avere una sua gravità.
Riso al centro: tecniche leggere per piatti ad alta intensità
A un certo punto, Lenzi ha smesso di usare la parola “risotto”. «Preferiamo chiamarlo riso, perché la differenza è nella mantecazione». La base resta quella italiana, tostatura e brodo, ma il gesto finale cambia: nessuna abbondanza, nessuna colatura di grasso a rifinire. Il chicco rimane denso, sgranato, vivo.

Riso alla pescatora
Il primo piatto nato con questo approccio è stato un riso al garum di polline, con porro bruciato e prugne fermentate. «Lo cuociamo in brodo, come un riso semplice. Dopo il riposo, aggiungiamo la parte cremosa, ma con pochissimi grassi. La sapidità viene dal garum». La consistenza non cerca la fluidità, piuttosto un’architettura palatale solida, nitida.
Il lavoro sul riso si è poi esteso anche alle interpretazioni più classiche. «Ora in carta c’è un riso alla pescatora. Sono napoletano, per me è un omaggio doveroso». Anche qui, tutto parte dall’estrazione: crostacei, molluschi, conchigliame. La mantecazione avviene con una pasta creata da bivalvi e frutti di mare. La cremosità arriva dalla sostanza, non dai condimenti.
Cucina d’hotel, senza compromessi: tre menù e una visione chiara
Il Sereno al Lago si trova all’interno di una struttura alberghiera, con ospiti che arrivano con desideri diversi: alcuni cercano l’Italia più semplice, altri scelgono un tavolo gastronomico per vivere una proposta creativa. Ogni segmento riceve ascolto e attenzione.
Tutto inizia prima del servizio. «Comunichiamo fin dall’arrivo. Il guest service, l’accoglienza: ogni elemento prepara alla tavola. Raccontiamo il nostro modo di lavorare, il percorso, le intenzioni». La narrazione anticipa i piatti e offre a chi si siede gli strumenti per comprendere.
A pranzo, il ristorante lascia spazio a una formula più dinamica. «Raccontiamo l’Italia anche con una proposta veloce. Piace moltissimo. Gli ospiti si sentono seguiti in ogni momento della giornata, restano all’interno di un ambiente coerente, che offre possibilità diverse».

Ceviche in spuma, ricciola, sedano e finocchio
Dietro questa architettura si riconosce una struttura organizzata, con una proprietà presente, pronta a sostenere un servizio personalizzato, un numero di addetti adeguato, un’offerta coerente. «Abbiamo lavorato per anni su questa forma di ospitalità, offrendo più menù, più formule, più dialogo».
In fondo, tutto si tiene. Il rispetto per chi si siede a tavola, la tecnica asciutta, il gusto per ciò che viene dalla terra, l’idea che un dolce possa chiudere il percorso senza abbassare il passo. «Per me è più importante dare un piatto dolce equilibrato, anche una piccola pasticceria, piuttosto che qualcosa di tecnicamente perfetto dove i grassi e gli zuccheri devono farla da padrone» dice Lenzi. Lo si capisce nei piatti, ma anche nel modo in cui li introduce. Con una coerenza che si fa strada per gradi, con la pazienza di chi non ha bisogno di forzare. E continua, anno dopo anno, a cucinare come crede. A modo suo.
Via Torrazza, 10 22020 Torno (Co)
Lun-Dom 12:30-14:30; 19:00-21:30