Tempo fa, ho incontrato il primo "vero" chef con cui ho lavorato. Quello che, forse più per sua necessità che altro, mi ha dato fiducia affidandomi un incarico di responsabilità in uno splendido hotel in Trentino. Incarico per cui, dopo i primi giorni di affiancamento, ogni mattina, per settimane, mi saliva il panico: paura di combinare un guaio, di non riuscire da sola, senza nessuno da chiamare per aiutarmi all'alba... Mesi dopo, venni a sapere che questo chef rideva di me alle mie spalle perché tagliavo male i pomodori per il buffet delle verdure. E vabbè. Resta una persona a cui devo veramente tanto. Si è preso la briga di insegnarmi un mestiere. Di offrirmi un'esperienza che mi ha cambiato la vita.

Nel mondo della cucina, “chef” è diventato un’etichetta inflazionata
Kitchen Confidential (dal vivo)
Di chef - o presunti tali - ne ho conosciuti parecchi in questi anni. Con diversi ho litigato forte. Alcuni li stimo. L'ultimo che ho conosciuto, e con cui forse lavorerò a breve, sembra uscito da un capitolo di Kitchen Confidential: alto, magro, lunghi capelli grigi, grossi anelli neri con teschi e draghi, orecchini, la voce roca del fumatore incallito. Starebbe a suo agio in copertina affianco a Bourdain. Compiaciuto del proprio atteggiamento burbero, a un certo punto mi fa: «Io non ho amici in cucina». E quindi? Avrei voluto rispondergli: «Che me ne frega? Cosa le fa pensare che io vada a lavorare in cucina per trovare degli amici?».
Lì per lì non mi ha fatto una grande impressione - preferisco professionisti dallo stile e dal look più sobrio. Mi ha ricordato gli adolescenti nascosti dentro giubbotti enormi, sotto cappellini e tatuaggi. La sua adolescenza, però, è finita un pezzo prima della mia. E a me, se non sono ben raccolti, i capelli lunghi urtano perfino nelle donne, sia in cucina che in sala. Apprezzo abbastanza l’Haccp da non indossare anelli, orecchini o make-up al lavoro. Quindi da ieri mi chiedo: se posso farcela io, a presentarmi in cucina all’alba senza un filo di mascara, sfoggiando occhiaie di mesi, unghie rotte e mani ormai rugose per il lavoro, cosa lo spinge a sentire l’esigenza di indossare tutti quegli anelli ai fornelli? Vedremo. Mi hanno parlato bene di lui, dunque per il momento sospendo il giudizio.
Che cosa vuol dire davvero “essere chef”
Dicevo, chef e "chef" ne ho conosciuti parecchi in questi anni, eppure non ho ancora ben chiaro che cosa significhi. Se linguisticamente e professionalmente è un francesismo indicante il ruolo di "capo", una posizione di leadership preposta a gestire la brigata, creare i menu e gestire i fornitori, ruolo recante una responsabilità complessiva sia manageriale che gastronomica, che cosa vuol dire "essere chef"? Spesso ho la sensazione che si abusi di questa parola. Per me è un termine ancora "fluido", un concetto in divenire, plasmato dall’insieme di virtù, abilità, intelligenza e competenza solida dei colleghi che ho potuto stimare.

Essere chef è responsabilità, umanità e mestiere, non apparenza
Certo, se non ci vanno giù troppo pesanti con le battute maschiliste, lo preferisco. Ma ad alcuni puoi perdonarle, quando sanno gestire con ironia e umanità le persone più disparate, fanno fronte alle richieste (pretese) irragionevoli dei quattro titolari dell’hotel che arrivano nei momenti più diversi e inopportuni, si assumono con nonchalance la colpa di un danno per proteggere un commis maldestro, si divertono nel loro lavoro e sono molto bravi ma umili, concreti e non boriosi. Tutte cose che un reel Instagram, una foto e un CV non possono raccontare.