Giorgio Locatelli, chef di fama internazionale, è molto più di un volto noto della televisione, diventato famosissimo nel suo ruolo di giudice di Masterchef: è un custode della cucina italiana, capace di unire tradizione, etica professionale e attenzione al dettaglio in ogni piatto. In questa intervista, Locatelli ci racconta la sua filosofia di vita e di lavoro, basata su ciò che lui definisce “decrescita felice”: una scelta consapevole di ritmi più umani, collaborazioni scelte con cura e un’attenzione maggiore alla qualità della vita, senza compromessi economici o mediatici.

Giorgio Locatelli dopo gli anni della Stella Michelin ora gestisce il ristorante all'interno della National Gallery di Londra
Dalla gestione della Locanda Locatelli a Londra alla sua esperienza attuale alla National Gallery (il suo nuovo locale diviso in una parte ristorante e in una più semplicemente bar), Locatelli condivide i momenti chiave di una carriera costellata di successi, tra cui la conquista della stella Michelin e l’apertura di ristoranti che hanno fatto scuola nella formazione di giovani talenti italiani. Ma il suo percorso non è fatto solo di traguardi professionali: il tema delle ricette inclusive, sviluppate anche in risposta alle allergie della figlia, dimostra quanto la cucina possa diventare un atto di cura e responsabilità verso chi la consuma.

Il nuovo ristorante di chef Locatelli è anche un bar per light lunch all'interno della National Gallery
Attraverso riflessioni sulla sostenibilità, la filosofia del “less is more”, l’autenticità nella televisione e la formazione dello staff, Locatelli disegna un modello di ristorazione che valorizza il talento, promuove il benessere dei collaboratori e riconosce il potere delle scelte quotidiane del consumatore. La sua visione di cucina va oltre la tecnica: è un luogo di incontro, apprendimento e inclusività, dove il piacere del cibo si sposa con il rispetto per le persone e per l’ambiente.
La scelta della decrescita felice
In una tua recente intervista hai parlato di decrescita felice. Cosa intendevi?
Quando hai una carriera come la mia, ogni offerta è una sfida e ogni tanto accetti compromessi per ottenere qualcosa: a livello personale, ritorni economici, esperienze lavorative. Ora ho 62 anni e non sono più pronto a fare questi compromessi. C'è una sorta di decrescita in questo, perché non faccio più quello che facevo a 30 anni. E, per essere schietto, mi sono stufato di lavorare con persone sbagliate. Oggi scelgo di collaborare solo con chi mi piace. Non conta quanti soldi, visibilità o esposizione offre un progetto: conta se mi fa stare bene. A 30 anni lavori anche con persone che, col senno di poi, non vorresti neanche incontrare. Oggi è diverso.
Un nuovo corso alla National Gallery
E nella cucina, questa filosofia come si riflette?
La cucina rimane sempre un luogo sacro, dove non ho mai fatto compromessi. Ne ho fatti nel business, sì, ma mai nella mia cucina. Rimane intatta, autentica. Ora, con l’avventura alla National Gallery, non passo più così tanto tempo ai fornelli come alla Locanda, quando era parte della mia routine quotidiana. Però mi manca tantissimo. Infatti prossimamente sarò tutto il giorno alla Community Refugee Kitchen nel nord di Londra, una charity che cucina per chi vive per strada. Lì incontro tanti giovani volontari, felici di imparare qualcosa da uno chef e di aiutare. È un’esperienza che mi riempie l’anima, non il portafoglio. Quando arrivi a 60 anni capisci che la vera felicità è questa: stare bene con te stesso e non misurare più il successo in base a ciò che pensano gli altri.

Ravioli di vitello, un piatto semplice ma allo stesso ricercato quello proposto da chef Giorgio Locatelli alla National Gallery
La chiusura della Locanda e i suoi ricordi
La Locanda Locatelli è stata un grande successo per oltre vent’anni. Perché hai deciso di chiuderla?
Non è stata una decisione presa alla leggera. I motivi sono diversi. Uno dei principali è stato l’aumento degli affitti nella zona, che sono quadruplicati, e non era più sostenibile. Inoltre, ci sono dei ristoranti, magari in provincia, dove la famiglia è protagonista, che vanno avanti con seconda e terza generazione, e sono importantissimi, una grande rappresentazione del territorio, un'espressione culturale del posto dove sono, hanno un grande senso. La Locanda era un esempio invece di economia circolare, con un suo processo di nascita, crescita e fine, e decidere quanto dev'essere lunga questa esperienza quando è il momento della fine è parte di questo processo. I miei figli non sono interessati a continuare l’attività e ho sentito che era il momento di cambiare, di rimettermi in gioco. Potevo rimanere lì, fermo, con la mia stella Michelin, con i miei collaboratori, ma è un ciclo che è finito. Mi è dispiaciuto molto, ma oggi dopo alcuni mesi sono molto contento della mia decisione, mi sembra di aver fatto un grande passo avanti. A 60 anni, guardandomi intorno, molti miei colleghi un po' non sono più in giro, altri non ce la fanno più. Invece, ho trovato nuova energia.
Formazione e inclusività come valori fondanti
Quali sono stati i momenti più significativi di Locanda Locatelli?
Sono stati diversi, ci stavo pensando proprio recentemente con mia moglie Plaxy, ma uno dei più importanti è stato senza dubbio la nostra politica nel training. Abbiamo sempre puntato sull’esperienza lavorativa dei giovani italiani che venivano a fare pratica all’estero, valorizzando il loro talento e le nostre conoscenze per farli crescere e mandarli in giro per il mondo. Questa attenzione alla formazione ha reso il nostro staff un elemento fondamentale del progetto. Ricordo che il mio contabile, David Baxter - che segue una cinquantina di ristoranti ed è specializzato nell’accounting per la ristorazione - mi diceva spesso: “Giorgio, ma com’è possibile che il tuo personale costi il 10% in più rispetto agli altri?”. Gli altri spendevano il 20% su ogni pound per il personale, noi il 30%. Ma la ragione era semplice: avevamo un grande training, volevamo offrire una formazione completa. Chi entrava nella nostra cucina faceva il giro di tre sezioni in 18 mesi, senza essere relegato a una sola mansione. Un’altra innovazione fu lo la rotazione ruoli: uno chef de rang doveva lavorare in cucina per almeno una settimana l’anno, mentre uno chef de partie doveva fare altrettanto in sala. Lo stesso valeva per la reception. Non era solo un ristorante, era una vera e propria nave scuola, e di questo sono fierissimo. La fierezza dello staff, la loro energia e il senso di appartenenza al progetto sono stati un grandissimo punto di forza.

L‘ingresso di quella che fu Locanda Locatelli
Un altro dei dei ricordi più forti è legato al riconoscimento della stella Michelin dopo appena nove mesi dall’apertura, subito dopo aver lasciato Zafferano, dove avevamo conquistato la prima stella Michelin a Londra, è stata una grande cosa. Quel giorno rimarrà per sempre nella mia memoria: ci diede la forza di andare avanti e la conferma che il nostro lavoro e il nostro messaggio era riconosciuto. Per quanto riguarda i clienti famosi, ne abbiamo avuti tantissimi nei primi dieci anni - come Tony Blair, allora Primo Ministro - ma la vera soddisfazione non è stata avere celebrità al tavolo, ce li avevamo ogni giorno in pratica, bensì creare un luogo che le persone sentivano come parte della loro vita.

Semplicità e ricercatezza, come nel Pear Parma Ham
L’esperienza del Covid è stata un’altra prova importante: chiudere, riaprire, fare takeaway. Ma la gente non tornava solo per mangiare; cercava convivialità, momenti speciali che solo un ristorante sa offrire, facciamo parte di una categoria di persone che ha la possibilità di creare dei momenti speciali che rimangono con la gente per tutta la vita, ed è una cosa bellissima. Quando abbiamo annunciato la chiusura della Locanda, abbiamo ricevuto lettere strappalacrime, di clienti che ci raccontavano di aver festeggiato lì compleanni per vent’anni consecutivi. Sentirsi dire: “Dove andrò ora? Ogni anno ho festeggiato qui, fa parte della mia vita” è stata una delle emozioni più forti.
Ma tra tutti, qual è il ricordo più bello?
Probabilmente l'aspetto più bello di questi ventitré anni è la consapevolezza di aver mantenuto lo stesso livello di eccellenza per così tanto tempo, io e il mio team. Non è difficilissimo raggiungere certi traguardi per uno o due anni, o prendere una stella per 2-3 anni; il difficile è mantenerli per oltre due decenni consecutivamente. E questo merito va riconosciuto a ogni singola persona che ha lavorato con noi.
Hai iniziato nei ristoranti della tua famiglia sul lago di Comabbio e adesso hai un locale all’interno della National Gallery di Londra: come è cambiata la tua visione del cibo nel passaggio da un luogo intimo a un contesto così simbolico?
Nella mia carriera, anche con esperienze come Olivo, Zafferano e la Locanda Locatelli, esperienze che sono durate quasi 40 anni, sono sempre stato al comando, impegnato a creare un destination restaurant, un luogo dove l’esperienza fosse speciale e la cucina parte di un momento memorabile. Alla National Gallery il concetto è diverso: la maggior parte dei visitatori non viene per mangiare, ma per vivere l’arte, per andare in galleria. Qui si desidera un servizio di qualità, veloce e appagante, spesso un semplice sandwich, un maritozzo o un caffè prima di continuare la visita».

I maritozzi proposti al Bar Giorgio, all'interno della National Gallery
La scelta della cucina italiana
Essere scelti alla National Gallery, noi come cucina italiana, sopra a ogni altra proposta - inglese, francese, giapponese, cinese, malesiana - è stato un grande riconoscimento. Non hanno scelto me come Giorgio Locatelli, ma hanno scelto la cucina italiana come espressione di eccellenza gastronomica a livello internazionale, una cucina importante in tutto il mondo. Questo mi ha reso orgoglioso: negli anni ho contribuito a dare visibilità alla ristorazione italiana all’estero, raggiungendo traguardi come la stella Michelin quando non c'erano italiani a poterla vantare fuori dall’Italia. Qui non propongo tanto quindi la mia cucina, ma una cucina italiana autentica, che rappresenti la nostra tradizione e la nostra identità. Non c’è la complessità di certi piatti della Locanda, dove si spingeva su certe creazioni, si riusciva anche più a spiegarli, la gente veniva anche per voler capire il piatto che volevi fare. Qui offriamo una proposta che trasmetta memoria, sapore e piacere immediato.

La sala del ristorante di Giorgio Locatelli nella National Gallery
Un tipo di ristorazione quindi con nuovi parametri:
Alla National Gallery i parametri cambiano: è un service restaurant, dove l’obiettivo è offrire qualità, una grande cucina italiana e accoglienza a un pubblico che spesso vuole riprendere la visita al più presto. Personalmente mi trovo molto a mio agio in questa dimensione, soprattutto vedendo i giovani chef italiani proporre cucine sempre più tecnologiche e innovative. Mettere in carta le tagliatelle al ragù e vedere la soddisfazione dei clienti è un piacere enorme. Se si pensa di essere nel nostro business e di avere sempre il 100% di successo bisogna cambiare business, tutti avranno sempre delle critiche, anche i più grandi. Però il tipo di cucina che stiamo facendo ora soddisfa sempre me e anche il cliente.
Nuove prospettive per tutto lo staff e una svolta informale
Questo cambio di prospettiva cosa ha significato per il tuo staff?
Sullo staff abbiamo avuto delle difficoltà. Dopo la Brexit, l’arrivo di personale italiano è diventato complicato: servono qualifiche alte. Abbiamo dovuto attingere a un bacino di talento inglese o di persone che possano lavorare in Inghilterra, Ma stiamo lavorando per formare una squadra che sappia esprimere al meglio la nostra ospitalità italiana anche in questo contesto unico. C'è da dire anche che alla National Gallery siamo aperti solo due sere a settimana, venerdì e sabato, le giornate sono corte. Questo permette di coinvolgere persone che desiderano orari particolari, magari con famiglia o che preferiscono non lavorare sempre nei weekend. Mi sono trovato molto bene con questo approccio. Devo dire che anche i nuovi arrivati sono rimasti stupiti dal nostro livello di formazione. Pensavano di avere standard altissimi nelle loro precedenti esperienze, ma quando hanno visto il nostro training sono rimasti scioccati. Spesso mi chiedono “Perché devo sapere fare anche questo?”. Io credo che sia fondamentale che tutti sappiano ancora prendere le comande a mano, non solo tramite computer. Se c’è un problema tecnico, il servizio deve continuare senza intoppi. Questa è un’abilità che viene dai grandi camerieri e che ho voluto preservare. Nonostante si parli molto di intelligenza artificiale, nulla potrà mai sostituire il contatto umano di chi ti accoglie, ti parla e ti porta da mangiare e da bere.

Un locale che è un service del famoso museo londinese
Tra bar espresso, chantilly cream buns e orecchiette al National Gallery, cerchi di portare un tocco informale nel contesto formale dell’arte. Come trovi l’equilibrio tra qualità gastronomica e atmosfera rilassata?
Non significa certo fare piatti meno ricercati, ma meno complicati. Fare cose semplici è spesso più difficile che farle complicate. Posso proporre un menù da 18 portate di cui non si ricorderà nulla, ma è un po' più difficile farsi ricordare su uno o due piatti, che ti resteranno impressi. Il lavoro è diverso: c’è più ricerca sul piatto, più attenzione e una capacità di essere compreso dai clienti, che spesso sono visitatori di passaggio e vogliono solo mangiare bene senza sorprese. Offrire tagliatelle al ragù o tonnarelli alla bottarga, spiegando cos’è la bottarga, diventa un modo per esprimere la vera cucina italiana.
Quindi si modifica, di fatto, anche il target di riferimento
A me piace sedermi e scegliere quello che voglio mangiare, non farmi imporre un percorso. Non amo i tasting menu infiniti: preferisco gustare poche cose e ricordarmi cosa ho mangiato. Credo che ci sia un ritorno a questo, anche commercialmente: le persone cercano un’esperienza conviviale, non una prostrazione allo chef-genio o al cameriere che fa spettacolo davanti al tavolo. Vedo tanti giovani chef che arrivano da ristoranti di altissimo livello, ma sanno fare solo un piatto, ripetuto per mesi. Questa è la fine della ristorazione, non è vera formazione. Nei miei locali ho sempre cercato di insegnare tutto, non solo una parte. Alla National Gallery entrano visitatori da tutto il mondo, non hai la stessa selezione naturale che puoi avere in un destination restaurant. La porta è aperta ed entrano tutti. Serve un prodotto che sia capibile da tutti, se non lo capiscono è un disastro. La cucina italiana ha questo vantaggio: non è elitaria, è inclusiva e parte di una tradizione accessibile. Al contrario, l’idea di cucina come élite è più francese. Io credo che il ristorante italiano debba rimanere un luogo di ospitalità, non di ostentazione. Prima di pensare alla stella Michelin, bisogna pensare a pagare il personale, coprire i costi e offrire qualità costante. Il resto viene dopo.
Ricette inclusive e attenzione alle allergie
La tua storia familiare, con le allergie alimentari di tua figlia, ha influenzato il tuo lavoro. Quanto è diventato importante per te sviluppare ricette inclusive?
Sicuramente, all'inizio l'ho visto come un grande sfida: avere una bambina davanti che può morire se mangia la cosa sbagliata ti fa pensare tre volte prima di servire qualsiasi piatto. Io e mia moglie Plaxy abbiamo lavorato tantissimo con il personale, sia sul servizio che sulla cucina, per garantire un training completo e assicurarci che la linea di produzione - dal momento in cui il cibo viene preparato al ristorante fino a quando arriva nel piatto - sia organizzata per evitare ogni tipo di "cross contamination". È stato un lavoro incredibile.

Giorgio Locatelli assieme alla moglie Plaxy, fondamentale per la sua crescita professionale
Anche questo, in fondo, significa formare talento
Con il tempo abbiamo creato molto talento: qualcuno è tornato in Italia e sta facendo grandi cose, altri hanno girato il mondo portando con sé ciò che hanno imparato da noi. Proprio a Natale ho ricevuto un messaggio da un ragazzo che ora lavora in Australia nel settore Food&Beverage, alla guida di una catena di hotel. Mi ha scritto: “Quanto mi rompevi con questa storia della cross contamination e del training per cucinare per chi è allergico a questo o a quello! Ma è proprio questo il nostro punto di forza di tutta la nostra compagnia ora". Essere stati toccati in prima persona dal problema ci ha portati a essere tra i primi ad agire seriamente, trasformando il ristorante in un luogo felice e sicuro anche per chi vede il cibo come un potenziale nemico. Quando entri in un ristorante, vedi i tavoli apparecchiati, la gente che mangia e beve, ti senti subito bene. Ma per una persona allergica può diventare un momento di paura, quasi un funerale. Creare un ambiente dove persone con grandi allergie possano vivere la convivialità con la famiglia in totale sicurezza è una cosa che ti apre il cuore. Vedere una bambina o un bambino che per la prima volta mangia al ristorante con i genitori e i nonni in tranquillità è un’esperienza unica, meglio magari dei complimenti di qualche vip.
Tematiche che in passato erano spesso sottovalutate?
Quando ero ragazzo, in cucina, se un cameriere ci diceva in una comanda “niente aglio” o “niente peperoni” perchè l'aveva chiesto il cliente, si reagiva con superficialità. Oggi invece capisco quanto sia importante questa sensibilità. Le intolleranze e le allergie che vediamo oggi sono anche il riflesso di come trattiamo il nostro mondo animale e vegetale, di cosa ci danno da mangiare e di cosa finisce nei pacchetti industriali. Spesso non sappiamo nemmeno cosa contengono, e questo porta a nuove generazioni con sempre più problemi alimentari. È un segnale che dovremmo prenderci più cura della nostra alimentazione.

Un locale informale, dove i visitatori del museo possono gustarsi degli squisiti maritozzi al salmone
Less is more: sostenibilità e responsabilità
Sei sostenitore del concetto “less is more”. Puoi condividere qualche esempio concreto della tua cucina che esprime questi valori?
Nei primi dieci anni alla Locanda decidevo tutto io. Poi ho iniziato a collaborare di più con i miei sous chef. Quando eravamo soddisfatti di un piatto, la regola era sempre la stessa: togliere due ingredienti e solo allora inserirlo in menu. Perché? Perché less is more: troppi elementi snaturano il prodotto, noi chef spesso tendiamo a strafare. Non ho mai amato la cucina decostruita, l’artista non è lo chef, l’artista è la natura. Lo chef deve preoccuparsi di dove viene il pollo, come è stato allevato e trattato, non solo di inventare trenta ricette diverse. Lo stesso vale per la carne: mangiarne meno, ma di qualità, è un fattore importantissimo. Non serve diventare vegetariani, abbiamo una lunga tradizione, ma l'idea è concentrarsii sulla qualità e sulla slow food philosophy, che invita a mangiare con consapevolezza.
Televisione, pubblico e il potere delle scelte
Sei un volto notissimo di MasterChef Italia e altri programmi. Cosa pensi del rapporto tra spettacolo televisivo e autenticità in cucina?
Non è facile riprodurre un servizio di cucina in TV, a meno che tu non abbia duecento telecamere e un regista di MotoGP o di Formula 1 per mostrare ogni dettaglio senza perdere il filo. La cucina è complessa da rendere nei parametri di un TV show che possa essere compreso da chi guarda da casa. Devi adattarti a quello che il pubblico può capire. Lo spettacolo televisivo, però, dà molto: oggi molte persone imparano a cucinare dai programmi di cucina e dai video, mentre una volta erano le mamme a insegnare. È quindi fondamentale dare il giusto spazio a questo mezzo. Sarebbe bello che si dedicasse più spazio non solo alla preparazione dei piatti, ma anche a ciò che sta dietro la cucina: la produzione, la materia prima, l’approvvigionamento di qualità. Questo sarebbe davvero importante. Inoltre, la gente dovrebbe rendersi conto del potere d’acquisto che possiede: quando vai al supermercato e scegli cosa comprare, stai decidendo cosa verrà prodotto e venduto l’anno successivo. Se un prodotto non viene acquistato, sparisce dagli scaffali. Quindi, se trovi solo prodotti di bassa qualità, la risposta è semplice: basta non comprarli. Siamo noi, con le nostre scelte, a sostenere un certo tipo di produzione.

Giorgio Locatelli tornerà il prossimo inverno con la nuova edizione di Masterchef accanto ad Antonino Cannavacciuolo e Bruno Barbieri
E, proprio su MasterChef Italia, puoi anticipare qualcosa della prossima edizione?
È già stato registrato e sarà in onda a dicembre. Il team è sempre lo stesso, con qualche supporto in più e una stagione davvero entusiasmante. Quest’anno abbiamo avuto concorrenti molto preparati e motivati, persone che vogliono davvero fare di questa esperienza una parte importante della loro vita professionale. All’inizio c’era sempre qualcuno interessato più alla visibilità mediatica che alla cucina. Oggi, invece, vedo passione autentica e disponibilità a correre grandi rischi pur di crescere in questo settore. Sono molto soddisfatto.
Il sogno di un ritorno in Italia
Si è parlato molto del tuo sogno di voler aprire un ristorante in Italia, quanto si è concretizzato ad oggi?
Idee ne ho tante, ma sto cercando un partner con cui condividere il progetto, con cui mi piaccia lavorare. Già qualche offerta mi è arrivata ma non volevo lavorare con certe persone. Voglio una collaborazione solida. Ho degli amici che mi stanno aiutando a cercare. Non ho fretta: abbiamo chiuso la Locanda a gennaio e riaperto un altro locale a maggio, quindi serve andare con calma, per quest'anno non credo si concretizzerà. Mi piacerebbe che il ristorante fosse nel Sud Italia, dove mi sento più a mio agio. Inoltre, vorrei un locale stagionale, che non abbia un impegno per tutto l'anno. Per ora è solo un progetto, ma è qualcosa che mi piacerebbe davvero realizzare.

La celebre ribeye secondo Giorgio Locatelli
Autenticità, passione e inclusività: la cucina secondo Giorgio Locatelli
Giorgio Locatelli ci mostra come la cucina possa essere una scelta di vita consapevole, in cui autenticità, qualità e responsabilità convivono. Dalla chiusura della Locanda Locatelli alla nuova esperienza alla National Gallery, lo chef racconta come passione, formazione del personale e attenzione alle allergie siano centrali nella sua visione. La filosofia della “decrescita felice” e del “less is more” guida le sue scelte, valorizzando ingredienti, processi e persone. Tra rispetto della tradizione italiana e innovazione, Locatelli conferma che un ristorante non è solo un luogo di consumo, ma uno spazio di memoria, piacere e inclusività.
Lo chef si conferma una delle voci più autorevoli della cucina italiana nel mondo, capace di trasformare il successo in responsabilità e il talento in condivisione. Oggi la sua lezione è chiara: un grande chef non si misura solo con le stelle o con la notorietà televisiva, ma con la capacità di offrire autenticità, rispetto e ospitalità. La cucina, per Locatelli, resta un atto di amore verso le persone e verso la vita stessa.
La storia di successo di Giorgio Locatelli
Locatelli è oggi uno degli chef italiani più riconosciuti dal grande pubblico. Nato nel 1963 a Corgeno, nel Varesotto, cresciuto in una famiglia di ristoratori, ha affinato la sua arte culinaria al fianco di grandi maestri come Anton Edelmann al Savoy di Londra. Nel 1999 ha conquistato la sua prima stella Michelin come executive chef al ristorante Zafferano di Londra. Nel 2002 ha aperto Locanda Locatelli, che ha mantenuto una stella Michelin per oltre 20 anni, fino alla sua chiusura nel gennaio 2025.

Chef Giorgio Locatelli oggi è anche un celebre personaggio televisivo
Nel maggio 2025 ha inaugurato un nuovo ristorante all'interno della National Gallery di Londra, unendo arte e cucina in un ambiente più informale e accessibile. Locatelli è anche noto per il suo impegno nella cucina inclusiva, ispirato dalle esigenze alimentari della figlia Margherita, e per la sua partecipazione a programmi televisivi come MasterChef Italia (di cui è giudice dal 2018) e molte altre trasmissioni. Autore di diversi libri di cucina, è stato insignito dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana dall'Ambasciatore italiano Pasquale Terracciano.