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Celiachia-Covid, relazione debole. Ma preoccupano le diagnosi tardive

Nella Giornata della celiachia ci si chiede: i celiaci rischiano di essere più esposti al Covid? Nei casi non gravi non vi sono differenze rilevanti

di Tiziana Colombo
 
16 maggio 2021 | 07:30

Celiachia-Covid, relazione debole. Ma preoccupano le diagnosi tardive

Nella Giornata della celiachia ci si chiede: i celiaci rischiano di essere più esposti al Covid? Nei casi non gravi non vi sono differenze rilevanti

di Tiziana Colombo
16 maggio 2021 | 07:30
 

Nel corso dell’ultimo anno i ricercatori hanno indagato il legame tra Covid19 e patologie preesistenti. Lo scopo di questo approccio è duplice: da un lato individuare evidenze sulla maggiore patogenicità del coronavirus al cospetto di condizioni patologiche preesistenti, dall’altro calcolare il rischio infettivo, ponendo come criterio principale proprio la presenza di determinate patologie. Il principio di base, studiato fin dagli albori della pandemia, consiste nel carattere opportunistico del Covid19, che non a caso risulta particolarmente aggressivo in caso di comorbilità.

Quale relazione tra celiachia e Covid?

Quale relazione tra celiachia e Covid?


Tra le patologie analizzate, anche la celiachia

Questa attività di ricerca ha coinvolto anche la celiachia. Le domande che i ricercatori si sono posti sono le seguenti: la celiachia aumenta il rischio di contrarre l’infezione? Una volta contratta, essa si manifesta con una maggiore aggressività rispetto alla popolazione generale? Un anno di pandemia ha consentito di formulare delle risposte, per quanto ancora prive di un solido supporto statistico. Prima di dare contezza delle evidenze raccolte, è bene segnalare una dinamica che, purtroppo, non appartiene solo alla questione “celiachia”, ma coinvolge tutte le attività sanitarie.

In quest’anno, certo con differenze rilevanti tra una fase pandemica e l’altra, le attività diagnostiche sono andate a rilento. La necessità di convogliare risorse materiali e umane nella lotta al Covid19 ha costretto a rimandare spesso esami e terapie non urgenti. Tra queste, purtroppo, è stata inserita anche la duodenoscopia, un esame per individuare la presenza di celiachia. Questa dinamica, come vedremo più avanti, ha inciso e sta incidendo sulla patogenicità del Covid19 nella popolazione celiaca.

Un legame tra celiachia e le forme gravi di Covid19

Il rapporto ISS Covid19 n. 38 del 2020 ha cercato di indagare l’eventuale legame tra il Covid19 e la celiachia. Rimandando a una lettura più approfondita, possiamo riassumere le principali evidenze raccolte.

Ebbene, se si circoscrive l’analisi ai casi non gravi di celiachia, non vi sono differenze rilevanti con la popolazione “sana” in termini di patogenicità e rischio di contagio. In buona sostanza i celiaci non gravi si ammalano con la medesima frequenza e con la medesima gravità rispetto ai non celiaci. Il discorso, però, cambia se la celiachia sviluppa la sua forma più grave, ovvero quando sussiste l’iposplenismo. In questo caso, infatti, si assiste ad una parziale compromissione della funzionalità della milza. Tale compromissione, di fatto, attribuisce al paziente una condizione di immunodepressione. A dire il vero, tale conclusione è frutto dell’osservazione degli esiti di altre infezioni, per patogenicità simili al Covid19, come appunto la polmonite da pneumococco.

Il problema della diagnosi

Il problema, però, ruota attorno alla progressiva difficoltà dell’accesso alla diagnosi. Se la diagnosi viene ritardata a causa delle dinamiche ospedaliere, l’insorgenza precoce dell’iposplenismo è più probabile. Ecco che in questo caso aumenta il rischio di contrarre il Covid19, e di contrarlo in una forma grave.

I consigli dell’Istituto Superiore di Sanità

Alla luce di queste evidenze, l’Iss raccomanda determinate azioni tanto ai celiaci (sia gravi che non), quanto a chi è ancora in attesa di una diagnosi. Ai primi raccomanda un totale rispetto della dieta gluten-free. D’altronde, rappresenta l’unico modo per tenere a bada i sintomi e, con essi, il progredire della malattia verso forme più gravi (come l’iposplenismo).

Ai secondi, invece, raccomanda di non iniziare in maniera autonoma e indiscriminata una dieta priva di glutine. Prese di posizioni unilaterali da questo punto di vista farebbero più male che bene, e risulterebbero controproducenti. Tra l’altro, in caso di un’evoluzione sfavorevole dei sintomi, si accederebbe comunque alla duodenoscopia per via emergenziale, fugando ogni dubbio sulla propria condizione e sull’eventuale presenza della celiachia.

La dieta gluten free che si raccomanda ai celiaci nell'anno della pandemia è stata messa a dura prova. Il problema ruota attorno alla questione delle esposizioni accidentali. Alcuni alimenti, per quanto ufficialmente gluten-free, possono contenere minime tracce di glutine, che possono scatenare reazioni nei casi caratterizzati da maggiore gravità. L’individuo, dunque, assume glutine senza saperlo. Senza contare i casi di contaminazione vera e propria, dovuti principalmente a prassi di preparazione poco consone.

Questa dinamica riguarda soprattutto contesti familiari in cui sono presenti individui affetti da celiachia e individui che non ne sono affetti. In questi casi chi si occupa della preparazione dei pasti non riesce a dedicare l'attenzione necessaria. Il caso emblematico è quello del genitore che prepara i pasti sia per i figli celiaci che per i figli non celiaci.

Ma quali sono le dimensioni reali del problema? Questa dinamica incide realmente sui casi in cui la dieta gluten-free sembra non funzionare? Se ne è occupato di recente uno studio tutto italiano.

Rischi di contaminazioni nelle diete gluten free rischiano di presentarsi tra le mura domestiche - Gluten free, i pericoli nascosti nelle diete tra le mura domestiche
Rischi di contaminazioni nelle diete gluten free rischiano di presentarsi tra le mura domestiche

Lo studio dell’Università Politecnica delle Marche
Lo studio è stato condotto dall’Università Politecnica delle Marche ed è stato diretto dal professor Carlo Catassi, gastroenterologo pediatra, nonché membro del Comitato Scientifico dello Schar Institute. Lo studio ha interessato, nello specifico, 69 bambini/ragazzi tra i 2 e i 18 anni, seguiti per una durata totale di 6 mesi. Tutti, ovviamente, seguivano una dieta gluten-free.

Ai soggetti in questione o ai loro famigliari è stato chiesto di stilare periodicamente una lista con tutti i cibi e le preparazioni assunti in giornata. Inoltre, è stato chiesto di consegnare dei campioni del cibo consumato. Tali campioni sono stati poi analizzati con il metodo Elisa, l’unico attualmente capace di rilevare la più microscopica presenza di glutine nel materiale organico. Questi i risultati.
  • Il 3% degli alimenti analizzati (400 in tutto) presentava contaminazioni da glutine.
  • Solo un campione presentava una contaminazione grave, pari a 20 ppm (1 ppm equivale 1 mg per litro)
  • 5 individui su 69 hanno ingerito, nel corso della dieta, cibi contaminati da glutine. In ogni caso, tale contaminazione era inferiore ai 10 mg al giorno.
  • La stragrande maggioranza delle contaminazioni provenivano da preparazioni domestiche, ovvero cucinate in casa
Uno studio simile è stato condotto in Olanda, utilizzando sempre il metodo Elisa. Il campione, però, comprendeva solo maggiorenni. Ebbene, in quel caso, i campioni contaminati superavano il 44%, benché anche in questo caso la contaminazione non superasse i 10 mg al giorno.

Molto spesso è necessario, per sicurezza, bandire il fai da te e affidarsi a dei professionisti - Gluten free, i pericoli nascosti nelle diete tra le mura domestiche
Molto spesso è necessario, per sicurezza, bandire il fai da te e affidarsi a dei professionisti

Accortezze e consapevolezza non bastano mai
Come leggere questo studio? In primis, riscontriamo che la situazione è meno drammatica di quanto si possa immaginare. Anzi, i ricercatori delle Marche si sono detti generalmente soddisfatti del grado di attenzione che i care-giver (familiari dedicati all’assistenza) e i soggetti hanno manifestato nel corso dell’esperimento. Segnale che, comunque, dimostra una certa consapevolezza ormai diffusa. A dimostrarlo, tra le altre cose, la quasi totale assenza di contaminazioni “gravi”, ovvero superiori ai 20 ppm.

Tuttavia la porzione di individui celiaci che, nonostante tutte le accortezza del caso, ingeriscono accidentalmente glutine è comunque alta. Si parla nello specifico di 5 casi su 69, equivalenti al 7% del totale, percentuale non trascurabile, soprattutto se rapportata al totale degli individui celiaci.

Cosa fare dunque? Il consiglio è di affidarsi a dei professionisti. Ovvero di bandire il fai da te e di farsi seguire da un esperto. Anche perché, come abbiamo visto, le contaminazioni maggiori avvengono proprio in ambito domestico. Spesso è sufficiente prendere alcuni accorgimenti e modificare leggermente le proprie abitudini per evitare qualsiasi tipo di rischio.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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