La liberalizzazione, e la flessibilità che ne è figlia, non può non essere l'obiettivo anche dell'indispensabile riforma del mercato del lavoro. Alle rigidità imposte dal tanto discusso articolo 18 si devono sostituire forme di tutela per tutti i lavoratori, e non solo per quelli delle grandi imprese. Ma il prezzo di nuove regole non può essere pagato ancora una volta dalle piccole aziende, perdendo anche i sia pur marginali spazi di elasticità contenuti nei contratti di categoria.
Un rischio tanto più concreto quanto più prende corpo l'idea di nuove norme, rigide, che diano soluzioni uniche per tutti. Quasi che la doverosa cancellazione di una discriminazione basata sul numero dei dipendenti debba portare con sé l'equiparazione di tutti gli impieghi. Come se un infermiere fosse paragonabile a un metalmeccanico o un bancario a un contadino.
Il risultato dell'omologazione contrattuale potrebbe essere quello di un irrigidimento che avrebbe conseguenze negative sulla flessibilità che in alcuni comparti è invece l'unica modalità per garantire un minimo di efficienza e di equilibro gestionale. è il caso dei
pubblici esercizi dove orari, turni e carichi di lavoro sono assolutamente variabili per rispondere al meglio alla domanda di un mercato che si modifica di continuo.
Se ristoranti, bar, alberghi e in genere tutti gli addetti legati al turismo (quasi un milione di lavoratori) riescono a sopravvivere ai colpi di norme spesso vessatorie e alla crisi economica sempre più pesante, è solo grazie a una flessibilità organizzativa che invece di essere messa in discussione andrebbe semmai rafforzata.
Bene ha fatto quindi il presidente di Fipe, Lino Stoppani, a prendere una
posizione netta rispetto ai ventilati progetti del Governo di rendere più costosa la flessibilità. Farlo per i pubblici esercizi, è il commento di Stoppani rispetto alle dichiarazioni del ministro del Welfare Elsa Fornero, «significa stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di uscita dalla crisi della ristorazione». E per parte nostra non possiamo che rilanciare questo allarme. Tanto più che proprio dai pubblici esercizi, per la loro funzione di promozione della qualità e del Made in Italy a tavola, può venire un'opportunità importante per rimettere in moto l'economia del Paese. Un obiettivo a cui non casualmente dedicheremo il confronto che abbiamo organizzato per sabato a Firenze in occasione della premiazione dei Personaggi dell'anno scelti con il sondaggio dai nostri lettori.
Il punto su cui invitiamo il Governo a riflettere è che non ci sono in ballo tutele corporative o lacci allo sviluppo, ma al contrario un minimo di flessibilità che giova a imprese e dipendenti che non conoscono pause, festività, stagioni e orari come in altri comparti. Togliere contratti a termine, intermittenti o a chiamata avrebbe solo due conseguenze: o la chiusura delle aziende o un aumento del lavoro nero. Contiamo che Monti e la Fornero ci pensino bene.
Alberto Lupini
alberto.lupini@italiaatavola.netArrticoli correlati:
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